Vignaioli cresciuti a pane e Croatina

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Il libro di Valter Calvi, il “papà” del Club del Buttafuoco

In Oltrepò pavese c’è una famiglia che da ben undici generazioni, dalla fine del 1600, continua la tradizione della coltivazione della vite sulle colline di Castana.

Valter Calvi, insieme al figlio Davide, cura con passione nove ettari di vigneti suddivisi in dieci vigne che conservano i loro antichi nomi (Montarzolo, Canne, Custieu, Colomba, Pragazzolo, Monteguzzo, Bugena, Frach, Falerna, San Bacchino). Valter è un “vignaiolo” che non segue la massa e che crede in una viticoltura basata sul rispetto dell’ambiente e sul benessere della pianta, senza uso di concimi chimici e limitando gli antiparassitari. E questo rispetto per “Madre Natura” è lo stesso che nutre per le conoscenze degli avi e per la storia, quella con la “s” minuscola, fatta di piccoli gesti quotidiani.

A lui si deve l’idea di fondare il Club del Buttafuoco Storico, nato nel 1989 con l’impianto di una vigna e diventato realtà nel 1996 grazie alla collaborazione di altri produttori di questo vino rosso.

In un momento storico rivolto solo in avanti, Calvi ha deciso di “voltarsi indietro” per dare uno sguardo al passato e per farlo è diventato un “vignaiolo scrittore” e ha dato alle stampe Pane e Croatina, presentato lo scorso 14 agosto proprio nella sua Castana. All’evento erano presenti Gino Cervi giornalista ed enologo, Mario Maffi famoso enologo, Ercole Bongiorni storico del territorio, Teresio Nardi della Condotta Slow Food e la sindaca Maria Pia Bardoneschi. Il libro, che si può acquistare su Amazon al prezzo di 15 euro, raccogliere ricordi, più o meno seri, sul suo paese «per fare in modo che non fosse dimenticato un pezzo di storia, magari non edificante, ma reale e quotidiano».

«Il Novecento, anche in queste nostre terre, – scrive l’autore nella prefazione – ha visto cambiamenti importanti, che hanno interrotto uno stile di vita e delle abitudini che sembravano consolidate. Nessuno poteva immaginare che si sarebbero volatilizzati secoli di esperienze in così poco tempo».

L’area presa in esame è quella di Castana, in particolare la “Palazzina”, dove lui è nato e continua a vivere.

«Tutti quelli che, come me, hanno respirato quell’aria – prosegue Calvi – non possono non ricordare le sollecitazioni che hanno ricevuto: gli odori, i rumori, i gusti, i contatti e la vista di momenti indimenticabili. Pur essendo una zona di confine, che aveva subito molteplici contaminazioni, l’Oltrepò pavese si era ritagliato una identità unica. Pochissimi territori in Italia hanno mantenuto un saper fare così caratteristico». Al centro delle pagine, che prendono in considerazione la metà del Novecento, c’è la figura del vignaiolo, che non è solo il coltivatore della vite, ma è un insieme di competenze, saper fare e stili di vita, frutto di secoli di esperienza; è presentato con suoi pregi e i suoi difetti. A lui è dedicato il primo capitolo al quale seguono quelli sulla vigna e sulla cantina.

“Apparentemente invincibile, ma suscettibile di tante debolezze, in primis la sudditanza nei confronti della compagna, la vera “arsadura”, il vignaiolo non esiste senza la sua “vigna”, una vera e propria entità anche se fatta di tanti individui”. E i preziosi frutti dovevano essere gelosamente conservati in “cantina” “il suo regno, anche il suo rifugio, magari per eludere il controllo famigliare”. Un capitolo a parte è quello dei “cambiamenti”, “alcuni arrivati prepotentemente, ai quali il vignaiolo ha dovuto adattarsi, altri cercati per alleviare il duro lavoro”. E poi seguono le “usanze” di un’antichissima comunità, che prima si chiamava Figaria le cui origini risalgono all’epoca romana. Calvi racconta di usi e costumi assolutamente originali, “in parte assimilabili a molti paesi della prima fascia collinare oltrepadana, in parte assolutamente unici”.

Un altro aspetto essenziale di cui tratta il testo è “il maiale” e i suoi derivati: “nobile” animale, parte integrante della famiglia castanese. E per finire un ultimo argomento: la morte, “guardata dall’esterno come una cosa inevitabile con la quale dobbiamo fare i conti”, in una sorta di omaggio a quanti non ci sono più e che vivono ancora nella memoria della gente.

Presente in tutto il testo il dialetto, ricchezza e orgoglio del vignaiolo, che ben esprime concetti e termini che la lingua italiana non riesce a rendere e, infine, tre interessanti e simpatiche appendici e una “chicca”: alcune pagine bianche “per chi volesse aggiungere i propri ricordi personali ad integrazione di quelli narrati”.

Daniela Catalano

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