«Se non parliamo di Cristo perché il mondo ci dovrebbe ascoltare?»

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L’intervista. Il cardinale Angelo Bagnasco lo scorso 6 marzo è stato ospite della nostra Diocesi per celebrare la festa del patrono san Marziano. Noi lo abbiamo intervistato “a tutto campo” e abbiamo affrontato con lui di alcuni temi di attualità: dalla denatalità all’emergenza educativa, dal suicidio assistito alla guerra

DI MATTEO COLOMBO

Eminenza, la Chiesa di Tortona celebra il suo primo vescovo san Marziano. Un santo che ci rimanda alle origini della fede in questa terra. Che effetto le fa?

«Sono molto grato al vescovo Guido che mi ha invitato fraternamente e ricordo con molto affetto sia Mons. Martino Canessa, che partecipa al Pontificale in cattedrale, sia Mons. Vittorio Viola, il precedente vescovo. Sono contento perché questa per me è un’occasione per condividere una grande gioia, la festa del patrono della Diocesi, un coraggioso testimone della fede, di cui oggi abbiamo bisogno. Specialmente nel mondo attuale, moderno, in cui tutto sembra diventare fluido sotto tanti punti di vista, è necessario, invece, ritornare alle fonti e le fonti più grandi e credibili sono quelle del martirio. San Marziano, che ha versato il suo sangue nel II secolo, proprio nell’età apostolica, è un particolarissimo testimone e maestro della fede. La nostra fede si deve misurare su quella dei 12 apostoli e di coloro che li hanno conosciuti, come il nostro san Marziano. Ripeto, c’è bisogno di testimoni coraggiosi che ci ricordino la bellezza della fede ricevuta dai Padri, la fedeltà a questa fede e il coraggio della testimonianza».

Agli uomini e alle donne contemporanei cosa ha da dire il nostro patrono? È ancora attuale il suo messaggio?

«L’attualità del nostro patrono è evidente perché se guardiamo alla cultura contemporanea dell’Occidente, dove tutto sembra essere diventato equivalente – qualunque posizione, qualunque opinione – anche in campo di fede, c’è ancora più bisogno di punti fermi. Certamente i martiri, e in particolare san Marziano, sono un punto fermo e di incoraggiamento».

Vuole dire che anche noi corriamo il rischio di adeguarci al “pensiero unico”?

«Sì, il rischio dell’uniformità e dell’adeguamento al pensiero unico può colpire anche noi cristiani cattolici, ma se questo accade diventiamo totalmente irrilevanti per il mondo, perché se non abbiamo nulla di nostro, di specifico, di diverso da dire rispetto ai linguaggi e agli obiettivi del mondo, seppure certamente molti dei quali sono più che corretti e condivisibili, se non parliamo di Gesù Cristo, perché il mondo ci dovrebbe ascoltare?».

Mentre facciamo memoria di san Marziano, un vescovo santo, lo preghiamo anche per suscitare nella nostra Chiesa nuove vocazioni. Un desiderio che sta molto a cuore a Mons. Marini. Eminenza, che ricordi ha della sua infanzia e di come è germogliata la sua vocazione?

«La mia vocazione è germogliata facendo il chierichetto, a 6 anni. Andavo a Messa la domenica accompagnato da mia mamma e mia sorella (il papà lavorava come pasticcere in un negozio di cui era dipendente), osservavo i bambini e i ragazzi sull’altare fare i chierichetti e mi sentivo attratto. Ammiravo il mio parroco anziano e il mio viceparroco; mi colpiva e mi attraeva vederli mentre celebravano la Messa, confessavano le persone, parlavano con tutti, stavano con noi bambini. Uno stile di vita che esercitava su di me un’attrazione, inconscia nei primi anni della mia infanzia, ma che poi è cresciuta. Avevo pensato di entrare in seminario in prima media, dopo le elementari, ma poi, giunto il momento, non me la sono sentita di staccarmi dalla mia famiglia. Eppure, terminate le scuole medie, questa piccola luce era ancora viva nel mio cuore. Così ho manifestato la mia volontà di farmi prete al mio viceparroco e ai miei genitori che non sono stati solo sorpresi, ma addirittura addolorati, perché era un vero e proprio distacco. Il mio curato, però, li ha tranquillizzati e loro si sono rallegrati vedendo che io, nonostante fossi un ragazzino, ero molto felice della mia scelta».

“L’emergenza educativa” è il titolo di un suo libro pubblicato nel 2009. Il sottotitolo recitava così: “L’educazione come urgenza e sfida del nostro tempo”. Sono passati 15 anni e credo che sia ancora la sfida di oggi. In particolare questo vale per le nuove generazioni, vittime di un vuoto su molti fronti. Che gioco deve giocare la Chiesa?

«Innanzitutto la sfida educativa di cui parlavo 15 anni fa non è sempre attuale, ma è molto più attuale oggi, è tragicamente più attuale, perché sostengo che il mondo giovanile sia tradito, ingannato dal mondo degli adulti, con tutte le debite eccezioni. Il mondo culturale, con i mezzi di comunicazione in generale, gioca contro il mondo giovanile perché lo inganna con miti, stereotipi, slogan, aspettative mirabolanti sull’esistenza, insinuando un concetto di vita che non esiste. Tutto facile, tutto dovuto, tutto spontaneo, nessuna fatica e grandi mete: questa è una visione della vita, ma anche dei rapporti con gli altri, segnata, in un certo senso, dal fatto che manca lo spirito di sopportazione. Diventiamo sempre più insopportabili e insofferenti gli uni verso gli altri. Quindi la Chiesa deve essere vicina, come sempre, e parlare ancora di più al cuore dei ragazzi, non per blandirli, ma per guidarli, perché essi vogliono essere guidati anche se, a volte, con la loro reazione, sia in famiglia, sia nella società, mostrano insofferenza, sono reattivi, contestano. Comportamenti che mettono alla prova gli altri per capire se si interessano veramente di loro. I giovani hanno bisogno che l’adulto sia loro vicino e voglia loro bene e, quindi, li richiami, li indirizzi e li guidi».

Un’altra urgenza dei nostri tempi è l’aumento del disagio sociale. Cresce la povertà. Giovani che non riescono a formare una famiglia, famiglie che non arrivano alla fine del mese, ricchi che son sempre più ricchi e poveri che son sempre più poveri. Talvolta nel nostro Paese sembra che le istituzioni non siano pienamente consapevoli di questo. Che ne pensa?

«Il disagio sociale è una situazione che riguarda il mondo intero. Da quello che conosco, in Europa, dove ho svolto il ruolo di presidente dei vescovi europei, ma anche in altre parti del mondo, il fenomeno o il processo della globalizzazione è per un verso inevitabile e lodevole: meglio camminare insieme che da soli e sparpagliati e poi penso all’Unione Europea, al nostro continente, che ha una grande missione umanistica per il mondo intero come culla del Cristianesimo. Per un altro verso tale fenomeno deve essere ripensato perché non può essere solo un processo di uniformità, di omologazione, di spegnimento dell’identità dei popoli, delle nazioni, dei continenti. Non può essere neppure un processo in cui chi è più fortunato anziché aiutare gli altri li domina o, addirittura, li usa. Certamente, venendo al nostro Paese, direi che il segno, a mio parere, più significativo e molto lodevole è stata l’azione degli agricoltori: venendo completamente dal basso, dalla terra, è concreto come i prodotti della terra. Anche l’Unione Europea ha dovuto fermarsi a riflettere. Cosa che, secondo me, per i Governi – non parlo soltanto dei nostri, ma di tutti quelli dell’Unione – è difficile, per mille motivi: di ordine burocratico o di natura finanziaria. Mentre una protesta civile, dal basso, ha fatto riflettere tutti e non è da snobbare».

In Italia non si fanno più figli. Lo certifica l’Istat. La denatalità è anche una questione di perdita di speranza nel futuro. Come è possibile invertire la rotta?

«Invertire la rotta della denatalità è possibile in due modi: uno di carattere culturale e l’altro di carattere politico. Nel primo caso, la cultura dell’Occidente di oggi deve valorizzare la famiglia, non demolirla né direttamente né subdolamente facendo intendere che sia l’origine di tutti i mali. Questo è sbagliato. L’istituto familiare è solo quello che ci ha consegnato l’esperienza universale e, come credenti, che vediamo plasmato proprio dalle mani di Dio. Dal punto di vista culturale, a mio parere, deve essere molto più valorizzata, non screditata. Infine, da un punto di vista più politico si devono attuare politiche familiari vere, che sostengano le famiglie che hanno figli e che aiutino i genitori nel loro compito. Tenendo conto che, in altre parti del mondo dove arriva il benessere e il progresso, si registrano meno nascite. Dovrebbe essere, invece, il contrario. Confido che nel nostro Occidente possa essere il contrario, perché in alcuni Paesi d’Europa, dove la politica di sostegno alla famiglia è incisiva, corposa, i risultati positivi ci sono. In Italia mi sembra che qualche cosa si muova a livello sia nazionale sia regionale».

Altra questione che preoccupa è quella del suicidio assistito. Ne abbiamo parlato la scorsa settimana sul nostro settimanale. Stupisce l’atteggiamento di alcune Regioni che stanno predisponendo disegni di legge per introdurre questa pratica. Sono in gioco il rispetto e la tutela della vita. Cosa si sente di dire in proposito?

«Ne ho parlato rispondendo ai ragazzi delle superiori che ho incontrato il 29 febbraio a Stradella, perché una delle loro domande era proprio su questo argomento. Ho citato l’articolo 32 della Costituzione Italiana dove si legge che lo Stato garantisce a tutti i suoi cittadini le cure per la salute perché la salute di ogni cittadino è un bene certamente per l’individuo, ma è anche un bene di tutti. Questo è fondamentale dal punto di vista razionale. Poi il fatto che la vita è sacra e ce l’ha data il Signore è la prima motivazione per noi credenti. La Costituzione recepisce la visione personalistica, umanistica secondo cui ogni cittadino, ognuno di noi, non solo è un individuo ma è anche persona e la persona è un individuo in relazione. Questa è una visione di una forte densità di valore e gravida di conseguenze enormi. Traducendo quell’articolo, io direi così: la tua vita è un bene anche per me. La tua malattia è un problema anche per me. E la tua morte, sopravvenuta o, peggio ancora, provocata, è un male anche per me, è un impoverimento. Ciò non lede la libertà delle persone ma cambia la prospettiva. L’eventuale legge, che speriamo non venga mai approvata, va contro a quella che è la natura della persona che è sempre in relazione con gli altri, non è una monade. Da questa visione più umanistica scaturisce una responsabilità enorme perché veramente una persona malata o moribonda, in qualunque stadio della vita, dal concepimento in avanti, è qualcosa di cui io e la società dobbiamo prenderci cura. L’ipotesi di un suicidio assistito corrisponde non alla dignità della persona ma alla libertà individuale, che è intesa in modo assoluto cioè sciolta da ogni altro legame, ed è una visione anti sociale».

Viviamo tempi di guerra. Numerosi i fronti aperti, i più noti la Terra Santa e l’Ucraina e quelli che fanno meno audience in tante zone del pianeta. Si parla poco di pace e sembra che la guerra ci abbia abituati a se stessa. Soprattutto non si parla più di “come” fare la pace. Come costruire sentieri di pace?

«A queste situazioni che lei ha citato (Ucraina e Terra Santa), che sono le più evidenti e a cui se ne è aggiunta una terza in Medio Oriente, ci si poteva e ci si doveva non arrivare. Come e perché? Perché esiste la diplomazia per prevenire, prevedere e risolvere. Se siamo arrivati a questo punto, i casi, a mio parere, sono due: o le diplomazie erano incompetenti e distratte, oppure hanno eseguito gli ordini dei loro Governi. Non vedo altre ipotesi. Bisogna essere tutti più onesti, perché “pacta sunt servanda” e se, storicamente, ci sono stati dei patti, degli accordi per fare o non fare determinate scelte tra Paesi, bisogna osservarli, altrimenti, prima o poi, la bomba scoppia. Anche per quanto riguarda la cessazione dei conflitti, bisogna essere molto più ragionevoli e onesti. Fin dall’inizio io ho auspicato che al più presto il mondo intero faccia un esame di coscienza perché bisogna rispettare i patti se ci sono e, nelle situazioni di conflittualità, ritrovare tutti la ragione. Per fare le tregue o per fare la pace bisogna sedersi a un tavolo e questo, automaticamente, vuol dire disponibilità a cedere o a rinunciare a qualcosa. Il compromesso, infatti, significa dare un po’ all’uno e un po’ all’altro. Chi guida le sorti del mondo, dovrebbe rinunciare in gran parte ai propri interessi economici, di cui le guerre sono un fattore molto redditizio. La voce della Chiesa però si sta facendo sentire in modo incisivo, motivato».

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