Bis di Sergio Mattarella. Ma non siamo alla Scala

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Il presidente galantuomo ha accettato di non sottrarsi «ai doveri a cui si è chiamati». Intanto i partiti, con la loro ammuìna, hanno lasciato attoniti gli italiani

Ragionando con il senno di poi dobbiamo ammettere che il «bis… bis…» insistente che si levava la sera di sant’Ambrogio dalla platea e dai palchi della Scala all’indirizzo del presidente Mattarella poteva fare il paio con il «Viva Verdi» dei teatri di metà Ottocento, una ovazione carica di significati che andavano oltre il riconoscimento del genio di un artista.

Anche l’invito, quasi una laica preghiera, del popolo della Scala che abbiamo udito lo scorso dicembre si è qualificato di forte valenza politica essendo in gioco in questa elezione presidenziale la tenuta degli equilibri istituzionali, la sopravvivenza del governo, la possibilità per il Paese di proseguire lungo la strada del consolidamento della ripresa e infine la capacità dei partiti, mai tanto screditati, di esercitare ancora un ruolo nel contesto sociale.

Sergio Mattarella, un gentiluomo e un galantuomo, ha accettato di fare il bis. Stava per andarsene, il trasloco dal Quirinale era in corso, poteva godersi un sereno e meritato pensionamento, lui che il prossimo 23 luglio compirà 81 anni. Lo hanno fermato il senso di responsabilità e il rispetto delle decisioni del parlamento: «Le condizioni attuali impongono di non sottrarsi ai doveri a cui si è chiamati e devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti».

Le sue parole misurate, perfino pacate dato il clima del momento, sanno di sberla solenne a una politica che si nutre di incapacità di venire a capo dei problemi e che per una intera settimana si è baloccata con una indecente ammuìna che ha lasciato attoniti tanto gli italiani quanto gli osservatori internazionali.

L’ammuìna era una manovra in uso nella Marina delle Due Sicilie: a un determinato comando l’equipaggio di una nave doveva spostarsi; chi era a destra andava a sinistra e viceversa, chi era a prua andava a poppa e così via, a dimostrazione di una effimera efficienza operativa.

Da lunedì 24 gennaio mattina a sabato 29 pomeriggio i partiti e i loro leader, incapaci di dar prova di determinazione, chiarezza di idee e certezze di obiettivi, hanno solo creato caos muovendosi a casaccio e coltivando, tutti, un protagonismo malamente mascherato dall’asserita volontà di ricerca di un nome condiviso che non poteva emergere o che non hanno voluto che emergesse, come hanno dimostrato i fatti. Partiti e leader che sono andati avanti e indietro, si sono spostati in una direzione e in quella contraria, hanno proposto pacchetti di nomi e nomi singoli puntualmente impallinati (Casellati) nel segreto delle urne, oppure nemmeno arrivati alla conta (Belloni). Il balletto indegno di un Paese maturo ha sconcertato l’opinione pubblica e ha portato acqua al mulino dei fautori del presidenzialismo, l’elezione diretta del capo dello stato sottratta ai giochetti delle segreterie e alle furberie dei franchi tiratori.

Il modo con il quale si è arrivati alla riconferma di Mattarella ci consegna una classe politica che una volta tanto non vede né veri vinti né autentici vincitori. Tutti i raggruppamenti devono leccarsi dolorose ferite e poco importa che le lacerazioni interne siano a questo punto maggiormente evidenti tanto tra i pentastellati ancora più divisi, con un Di Maio scalpitante e un Conte in affanno, quanto tra i leghisti il cui capo Salvini rischia di perdere la leadership. La figura politica più rappresentativa o forse solo più ambiziosa del Centrodestra, Giorgia Meloni, deve fare i conti con il redivivo Berlusconi, il non-candidato che non nasconde la velleità di essere sempre lui il vero numero uno dello schieramento.

Renzi? Potrà intestarsi il merito di aver stoppato con un intervento inappuntabile la proposta di candidatura di una personalità di eccellente caratura (Elisabetta Belloni) ma responsabile di una struttura dello stato tanto delicata da rendere inaccettabile che il suo capo transiti direttamente nella politica.

Il Pd? Patetica l’idea del conclave a pane e acqua suggerita da Letta con la sua unica esternazione che abbia trovato eco sui media. Timidissima del resto la proposizione del nome di Andrea Riccardi. Un chiaro segno di impotenza e di irrilevanza di un partito che ai tempi d’oro di Renzi era arrivato al 42% dei consensi elettorali. Logico il rifiuto generalizzato di finire sotto chiave come riottosi cardinali incapaci di scegliere un Pontefice.

Sul fronte del governo, scontato il malumore di Draghi che palesemente mirava al Quirinale, la riconferma di Mattarella garantisce, salvo colpi di testa dei partiti, quella stabilità di cui il delicato momento che l’Italia sta vivendo ha bisogno assoluto. Se è consentita una espressione che non ha nulla di irriverente verso l’interessato possiamo dire che i grandi elettori hanno scelto per il Paese l’usato sicuro. Ai giochi politici veri assisteremo tra poco più di un anno in occasione del rinnovo del parlamento.

Antonio Giorgi

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