I giovani di Voghera ricordano Peppino Impastato

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Giovanni, il fratello del giornalista e rivoluzionario ucciso dalla mafia nel 1978, ha incontrato la città e i detenuti del carcere. Una testimonianza che parla anche di fede. Noi siamo andati ad ascoltarlo

di Daniela Catalano

Peppino Impastato fu ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, all’età di 30 anni, a Cinisi, poco distante da Palermo. La sua eredità culturale è stata raccolta dal fratello Giovanni che per tre giorni, lo scorso fine settimana, è stato ospite a Voghera. A invitarlo la vogherese Fortunata Di Tullio, già coordinatrice e capoarea giuridico pedagogica della Casa Circondariale di via Prati Nuovi, che dopo averlo conosciuto nel 2022 e aver ascoltato la sua testimonianza in Sicilia, ha voluto dare questa possibilità anche ai suoi concittadini.

Con la collaborazione della direzione del carcere, dove ha lavorato fino a poco tempo fa, e di don Pietro Sacchi, parroco di San Pietro apostolo, comunità parrocchiale di cui Fortunata fa parte, è stato organizzato. Giovanni è stato protagonista, nel teatro del Don Orione, di due appuntamenti: nella serata di sabato 11 febbraio con i giovani e nel pomeriggio di domenica 12 con gli adulti. Nella mattinata di lunedì 13 febbraio, infine, è stato accolto in carcere per rivolgersi alle persone detenute, agli operatori penitenziari, ai volontari e ai docenti che prestano quotidianamente la propria attività all’interno dell’istituto di pena vogherese.

Il dialogo, prima con i giovani e poi con gli adulti, è stato molto intenso e ha fatto emergere un ritratto a tutto tondo di Peppino, figura “unica”, non solo per il suo ruolo di rottura storico-sociale, ma, «soprattutto perché è stato testimone in prima persona della mafia» come ha precisato Giovanni che gli ha dedicato il libro Mio fratello. Tutta una vita con Peppino.

I due ragazzi, infatti, sono nati in una famiglia collusa con la criminalità organizzata e, all’inizio, furono inseriti in un sistema che sembrava essere protettivo e nel quale vigeva il senso dell’onore. Solo più tardi, Peppino, intelligente e curioso, si rende conto di quanto sia pericoloso e ingannevole. Dopo l’uccisione dello zio da parte di cosa nostra, cresce sempre di più in lui il desiderio di smascherare la mafia, di denunciarla, di denigrarla. E comincia a farlo con la cultura, attraverso il suo circolo e i microfoni di Radio Aut, emittente locale da lui fondata a Cinisi, roccaforte del clan dei Badalamenti.

«Peppino – ha raccontato il fratello – era un essere umano veramente speciale. Si rendeva conto di certe cose, certo, però si faceva forza con le sue idee. Non era solo un antimafioso e un antifascista, era un militante. E credeva davvero che la mafia potesse essere sconfitta. Non era un irresponsabile: aveva paura, certo. Sapeva, però, conviverci. Lottava contro ogni forma di sopraffazione, e sapeva che questo lo avrebbe portato a scontrarsi con la mafia. Dopo l’uccisione di nostro padre gli dissi che doveva smettere, e lui rispose che avrebbe continuato. Perché nessuno potesse dire che lui faceva quello che faceva solo perché aveva la “copertura” del padre».

Il padre Luigi che, quando capì che Peppino era stato condannato a morte dal boss Gaetano Badalamenti, cercò protezione per il figlio, anche negli Stati Uniti, purtroppo senza ottenere nulla.

Giovanni ha parlato di Peppino come di «un uomo libero, coerente, animato da ideali di giustizia e libertà. Aveva una carica umana impressionante, stava sempre al fianco di chi aveva bisogno. Si divertiva, organizzava concerti, feste… Aveva genialità, allegria e soprattutto ironia, ecco. E con la sua radio prendeva in giro i mafiosi, li ridicolizzava. Li sviliva, li smantellava. Voi vi credete ricchi, criminali, pericolosi, ma siete solo uomini ridicoli».

Parlando della mafia oggi, Giovanni ha sottolineato come sia completamente cambiata «sia nella logica sia nella strategia e nel modo di rapportarsi con le persone e le istituzioni. È diventata una mafia imprenditrice, e poi finanziaria. Ha iniziato così a spostarsi al Nord. Dopo il periodo stragista, dello scontro diretto con lo Stato, è cambiata ancora: oggi si parla di borghesia mafiosa ed è intrecciata con i sistemi di potere politico, economico e finanziario, silenziosamente».

«Deve ancora essere sconfitta – ha detto – perché è dentro lo Stato, intrecciata con la gestione del denaro pubblico, gli appalti. Quando uccideva uomini di Stato, lo faceva perché questi tentavano da dentro di bloccare un processo».

Giovanni e sua madre Felicia all’inizio sono stati lasciati soli. La morte del fratello è stata fatta passare come il suicidio di un terrorista che non era riuscito a mettere a segno il suo atto criminale. Loro, però, non hanno mai smesso di credere nella giustizia e nelle istituzioni e hanno lottato perché la verità fosse riconosciuta e i colpevoli condannati.

«Odio, rancore, violenza – ha aggiunto Giovanni – non portano da nessuna parte e noi abbiamo rifiutato questa logica. Abbiamo cercato con forza ogni spiraglio per onorare la memoria di Peppino». Mamma Felicia, che Giovanni ricorda con grande affetto e commozione, è stata determinante. Ha lottato sostenuta dalla sua grande fede.

«La fede in lei – risponde Giovanni – ha influito tantissimo, perché ha evidenziato la sua grande coerenza e il rispetto dimostrato nei confronti della famiglia, dei figli, delle persone. Lei, anche se tradita, non ha mai abbandonato il marito e si è preoccupata tanto anche per gli amici di Peppino. Al processo di Badalamenti, ha avuto il coraggio di guardare il boss in faccia e dirgli, con tranquillità, che proprio lui era stato l’assassino di suo figlio. Senza isterismi e rabbia, ma con la serenità di chi sa di essere a posto con la coscienza e conosce le parole evangeliche: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”».

Oggi Giovanni porta avanti il messaggio del fratello animato anch’egli da un forte senso di giustizia: «Ho voluto dare dignità all’immagine di Peppino che è stata infangata con la definizione di terrorista. Io ho cercato di continuare un dialogo con lui che si era interrotto. Paradossalmente il vero dialogo è iniziato all’indomani della sua morte e prosegue ogni volta che parlo di lui, soprattutto con le nuove generazioni alle quali racconto chi era mio fratello e il senso della sua lotta alla mafia. Ho sempre condiviso il suo impegno, ma in quegli anni avevo tanta paura. Poi la sua uccisione ha scatenato emozioni che mi hanno spinto a portare ovunque le sue idee».

Giovanni è convinto del fatto che per vincere la mafia bisogna crederci sempre. «Sono fondamentali la cultura e l’impegno, – ribadisce – e non bisogna mai arrivare alla rassegnazione. Le persone rassegnate mi fanno paura. Dobbiamo andare sempre avanti, ricordandoci che, come diceva Gramsci, è importantissimo studiare ed essere istruiti. Bisogna avere sempre una grande attenzione per il territorio e per il creato che ha anche un profondo valore cristiano e parla di bellezza e di speranza». Se la vicenda dell’arresto di Matteo Messina Denaro ha fatto emergere ancora una volta una parte di Sicilia omertosa, lui è sicuro, però, che oggi qualcosa è cambiata per sempre e che la lezione di Peppino non potrà mai essere dimenticata.

L’incontro con alcune persone detenute nella Casa Circondariale di Voghera nella giornata di lunedì, come ha dichiarato il direttore Davide Pisapia, è stato un’occasione unica e concreta di confronto per quanti stanno cercando di sanare la frattura con la società che la commissione di un reato comporta.

Grazie a Giovanni, anche Voghera ha ascoltato e non dimenticherà le parole di Peppino: “Per vincere il male bisogna educare la gente alla bellezza, perché negli uomini e nelle donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.

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