Hai voluto la bicicletta…

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Tre le poche novità positive derivate dalla nefasta rivoluzione che ci ha colpito in questi mesi c’è una maggiore attenzione all’ambiente e a uno stile di vita salutare, tanto che ci stiamo lentamente aprendo ad abitudini consolidate in altri Paesi europei. Per le giovani generazioni questo passaggio è più facile: seguendo la coetanea apripista svedese, i ragazzi si stanno convertendo sempre più a una condotta green. Nel caso specifico che mi riguarda, l’educazione ambientale iniziò con rigore fin dalla scuola dell’infanzia, grazie a maestre illuminate, lasciando un imprinting resistente anche alle intemperanze dell’adolescenza. Va da sé che, terminata la scuola e riacquistata l’agognata libertà, si ponga il problema di una mobilità in autonomia, ma sostenibile: «Non voglio che mi trasporti tu ovunque, ho deciso che devo essere più indipendente (intono intimamente il peana della vittoria), però non mi piace camminare: se usassi la bicicletta? Inquiniamo meno e tu sei più libera». Stento a credere alle mie orecchie: «Perfetto! Ti regalo la mia city bike: dobbiamo solo farla sistemare, perché è inutilizzata da anni, ma ti troverai benissimo». La soluzione parrebbe di gradimento e si procede con un notevole investimento nell’adattamento della due ruote, ma il giorno del ritiro dal ciclista, iniziano le perplessità: «Ma è una bicicletta da principessa! Non voglio il cestino, che orrore! No, non va bene, usala tu, io voglio quella di papà con la canna». Ribatto: «Ma è una bici da uomo, scomodissima e poi avrà i cambi da revisionare: ho appena speso una cifra per ripristinare la mia!». L’aspirante bellezza in bicicletta è irremovibile: pare che il modello da uomo sia molto di tendenza, pertanto viene eletto a mezzo di trasporto estivo. Per qualche giorno regna l’anticiclone della serenità, ma ecco le prime nuvolaglie: «Il pedale destro fa uno strano rumore e mi sembra che si stia per staccare». Gentilmente propongo: «Domani mattina usa la mia: portiamo la tua dal ciclista e la facciamo riparare». «Ma va’, cosa vuoi che succeda: vado solo in piscina!». Fedele all’indige

no motto: «Fa’ se che ta vo’ che ta’ scamp pusè un pess» («fai quello che vuoi, che vivi più a lungo»), lascio correre. Il giorno dopo, immersa nelle faccende di ufficio, ricevo una telefonata disperata: «Mamy, un disastro! Dopo allenamento abbiamo fatto un giro fino a Viguzzolo e si è staccato il pedale! Cosa faccio? Siamo tutti in biciletta, puoi venirmi a prendere?». Contando preliminarmente fino a 40, rispondo con britannico aplomb: «Io sono a piedi e non posso assentarmi: cammina a bordo strada e spingi la bici». Arrivata a casa, trovo la ragazza trafelata ma accondiscendente: «Oggi pomeriggio mi accompagni dal ciclista?».

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