Dagli all’untore

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Le fosche previsioni che incombevano sulla nostra estate si sono avverate: stiamo ricadendo in un’emergenza sanitaria che, pur sembrando meno letale di quella già vissuta, spadroneggia nelle nostre vite. I ragazzi, terminata una stagione spensierata e talvolta un po’ sconsiderata, si sono trovati risucchiati in questo vortice di incertezza e timori già dall’avvio dell’anno scolastico, dovendosi adattare a varie modalità didattiche e a rigidi protocolli di sicurezza.

A questo si è aggiunta una tendenza che molti hanno avvertito martellante: voler cercare un capro espiatorio per giustificare la recrudescenza della pandemia. A partire dal mese di marzo siamo stati spettatori della caccia all’untore, concretizzatasi dapprima nella figura del runner che, correndo solitario su strade di campagna, avrebbe potuto diffondere il virus (ai cinghiali?), l’infame sospetto è ricaduto poi sui proprietari dei cani, rei di non aver dotato le bestiole di catetere e stomia per espletare i bisogni, per giungere ai temibili vacanzieri di ritorno dai lidi sardi e, infine, ai ragazzi, sospettati di “dropplettare” l’atmosfera di particelle infettive. La figliola che, per la salvaguardia della salute non si avvicina fisicamente ai quattro nonni dalla fine di agosto, ha mal tollerato quest’ultima caccia alle streghe: «È ora di finirla di dire che i giovani diffondono il virus perché sono irresponsabili! Quest’estate abbiamo vissuto liberi, ma siamo a fine ottobre e non è per questo motivo che si registra un aumento dei contagi! Da quando è iniziata la scuola siamo sempre stati attenti: mettiamo le mascherine, in aula iberniamo perché teniamo le finestre spalancate, se usciamo siamo controllati a vista: sabato sera in piazza Duomo c’erano più vigili e carabinieri che persone!».

Lo sfogo è comprensibile: negli ultimi tempi l’identificazione giovane = untore è diventata virale (ironia delle parole!) e i provvedimenti dell’ultimo Dpcm non sembrano smentire questo trend. La situazione è difficile, ma mi chiedo se a livello centrale non si potesse tentare una soluzione alternativa: mi preoccupano il progressivo appiattimento psicologico, la tristezza che balugina negli occhi nel seguire le lezioni da remoto, lo svilimento nel dover nuovamente rinunciare allo sport, il timore persino nell’invitare a casa un amico a sbranare una crostata.

Non mi stupisco che la ragazza, altalenante tra la depressione e l’agguerrimento, se ne sia uscita con questa osservazione: «Guarda fuori dal bar qui di fronte quanti anziani ci sono! E all’interno ce ne sono altrettanti a vedere la partita! Qualcuno mi deve spiegare perché loro possono e io devo andare a scuola a giorni alterni e forse in futuro nemmeno più quello! Ah sì, noi siamo untori…».

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