Suor Nemesia Valle “filo rosso” della Provvidenza

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Nel cuore di un intreccio meraviglioso di santità: ripercorriamo la vita e le opere della “nostra” beata in vista della celebrazione diocesana a lei dedicata che si terrà a ottobre

DI DON MAURIZIO CERIANI

Il 1800 fu per la Diocesi di Tortona un secolo di straordinaria santità, contraddistinto da figure singolari sotto il segno della carità nelle forme più varie e intelligenti. L’onda lunga di questa stagione raggiunse e fecondò anche il secolo XX, per cui potremmo parlare di un “secolo d’oro” della santità tortonese, che dal Canonico Mejninger giunge a Mons. Amilcare Boccio.

Su tutti emergono san Luigi Orione e la Beata Nemesia Valle, ma i frutti di quell’albero grazioso sono numerosi: basti pensare ai tanti nomi della costellazione di santità orionina, come don Gaspare Goggi, frate Ave Maria, don Carlo Sterpi, oppure alle nobili figure dei vescovi Igino Bandi e Ambrogio Daffra o al padre Michele da Carbonara, al canonico Giovanni Novelli, alla beata Giuseppina Nicoli, alla beata Teresa Fasce, alle venerabili Maria e Giustina Schiapparoli, a madre Estela Civeriati. Studiandone i profili biografici si scoprono inanellati l’uno all’altro in quel misterioso e stupendo disegno con cui lo Spirito Santo “ricama” la storia della Chiesa.

Nel centro di questo ricamo divino troviamo, quasi un “filo rosso” che tutti unisce, la beata Nemesia Valle. L’apripista a questa stagione di santità fu il canonico Giovanni Antonio Mejninger, fondatore del primo orfanotrofio cittadino, quello che successivamente divenne l’Istituto San Vincenzo, tuttora esistente come sede principale della scuola diocesana “Santachiara”.

La sua fu una vita breve, 45 anni tra il 1809 e il 1854, ma significativa e emblematica nella storia della Diocesi e nelle vicende dei decenni successivi. Basta lasciarsi “suggestionare” da alcune “coincidenze” che accaddero poi, come conseguenza delle sue “scelte”. Fu l’orfanotrofio da lui assolutamente voluto a “causare” l’arrivo a Tortona da Vercelli, complice il vescovo Mons. Giovanni Negri, delle suore della Carità di Santa Giovanna Antida, tra le quali vi era la giovane Suor Nemesia oggi beata.

Sappiamo quanto i trent’anni della permanenza tortonese siano stati fondamentali nella maturazione spirituale della beata Nemesia e come ella fu tra le prime a credere alla validità e a sostenere l’iniziativa del “Collegietto” del giovane chierico Luigi Orione. Sappiamo anche quale spirito di serietà aleggiava nel seminario tortonese (sia pur un po’ troppo incline al rigorismo filo-giansenista) da cui don Orione trasse i primi e più convinti collaboratori della sua opera e dove venne sempre compreso e assecondato da quel sant’uomo del rettore mons. Ambrogio Daffra, che in seguito divenne vescovo di Ventimiglia. Ebbene, quello stesso seminario e il clero che accolsero il giovane Orione, dopo l’esperienza torinese, era stato formato alla scuola del canonico Mejninger, che ne fu il direttore spirituale per 16 anni, dal 1838 fino alla morte.

Suor Nemesia raccolse spiritualmente il testimone dal canonico Mejninger, anche se fisicamente non lo incontrò mai, e sviluppò in modo esponenziale la sua opera a favore delle orfanelle della città. “Alla quale sono obbligato per tutta la vita” Mons. Ambrogio Daffra fu direttore spirituale e poi rettore del nostro seminario; in seguito vescovo di Ventimiglia dal 1892 al 1932. A lui toccò la gioia di accogliere in seminario il giovane Luigi Orione e di comprenderne il carisma.

Don Orione ebbe sempre una stima grandissima per Mons. Daffra e tra i due nacque un dialogo profondo e confidente; fu suo direttore spirituale fino all’ingresso a Ventimiglia e il nostro santo lo definì «una delle figure più luminose di sacerdote che io abbia mai conosciuto».

Una singolare vicinanza tra mons. Daffra e suor Nemesia emerge da molti documenti e testimonianze, alcune di mano dello stesso vescovo. Egli che la conobbe molto bene durante gli anni dell’apostolato tortonese, ne ebbe stima continua, come di un’anima particolarmente toccata dalla grazia divina, a cui fece continuamente spazio nella propria vita. Nella memoria che scrive per la causa di beatificazione ne descrive l’impressione durante il loro primo incontro, come di persona dal “portamento dignitoso, soave, grazioso, con l’aria di una monaca tutta del Signore”.

Ne descrive poi la lunga frequentazione come confessore del collegio San Vincenzo e direttore dell’orfanatrofio Mejninger, sottolineando che “per qualunque buon andamento si chiamava suor Nemesia e questa col sorriso sulle labbra, con il suo piacevole sguardo e con la gravità delle espressioni rendeva soddisfatta ogni domanda”. In particolare il vescovo ricorda il tratto materno della suora verso le consorelle, le educande e le orfane, così che da tutte “era considerata come tenerissima Madre”. Inoltre ricorda come “le signore della città frequentavano le sue stanze per chiedere consiglio e deporre nel cuore di suor Nemesia le loro pene e ricavarne materno amorevole conforto”.

La stessa cosa avveniva per seminaristi e sacerdoti, per i quali suor Nemesia aveva un tenero affetto spirituale e dei quali era sempre solerte e discreta benefattrice. Lo stesso Mons. Daffra fa capire che ricorreva spesso ai suoi consigli, come fece in un momento fondamentale della sua vita, riconoscendo che in quell’occasione “parte attiva vi prese la mano della Rev.da Suor Nemesia, alla quale sono obbligato per tutta la vita”.

Ecco il racconto che ne fece mons. Daffra: “Era l’anno 1892 quando a Tortona in seminario mi pervenne dal Sommo Pontefice Leone XIII la nomina a Vescovo di Ventimiglia. Manifestavo la mia agitazione, la mia confusione e impossibilità. Quella santa anima tutto comprese il mio turbamento dell’animo, lo scompiglio della mia persona e con parola savia mi rasserenò dicendo: non pensi cha ad ubbidire al Papa e non cerchi altro!”. Con il suo tratto materno e ad insaputa dell’interessato, suor Nemesia provvide con la sua carità silenziosa gli abiti pontificali del nuovo vescovo, che ricorda con commozione: “Mai ho dimenticato tenerezza così abbondante e benefica, né mai vorrò obliare grazia sì copiosa discesa sul mio capo in quei giorni così speciali di mia vita. Mai l’ho dimenticata finché visse ed ancora la ricorderò fino all’ultimo respiro”.

La Provvidenza fece trovare a Mons. Daffra la forza per accettare la missione di essere padre per la Chiesa di Ventimiglia nella tenerezza di un’autentica Madre nello spirito. “Grazie per tante attenzioni per me usatemi” Dobbiamo invece alla penna di madre Maria Candida Torchio la memoria del rapporto tra la beata Nemesia e padre Michele da Carbonara. Madre Candida, che fu superiora generale delle suore della Carità di Santa Giovanna Antida negli anni del Concilio Vaticano II, è un’altra perla (dimenticata) di vita religiosa che onora la nostra Chiesa diocesana, essendo nata a Paderna.

In una preziosa raccolta di note biografiche su suor Nemesia, madre Candida mette in luce il singolare rapporto tra le due figure di santità. Padre Michele, al secolo Giuseppe Carbone (1836-1910) nato a Carbonara Scrivia, fu sacerdote diocesano, canonico della cattedrale, docente di Diritto canonico in seminario, vicario generale della Diocesi, finché cinquantenne divenne religioso tra i frati Minori Cappuccini, missionario in Africa e prefetto apostolico dell’Eritrea, da poco annessa ai domini coloniali italiani.

Durante il suo ministero tortonese fu sostenitore spirituale e materiale dell’orfanatrofio Mejninger ed ebbe modo di conoscere e apprezzare suor Nemesia, collaborando a lungo con lei nelle numerose opere quotidiane di formazione e di carità. In suor Nemesia vibrava un cuore apostolico e missionario; Dio solo sa se nella vocazione francescana e missionaria del vicario generale Giuseppe Carbone non abbia contribuito anche la vicinanza di quel cuore così ardente.

Noi sappiamo che a Tortona fu proprio la nostra beata a dar vita al primo Centro missionario, antenato benedetto di quella feconda tradizione missionaria tortonese che attraversò tutto il XX secolo. Così racconta madre Torchio: “Allora non era ancora ben conosciuta in Tortona la necessità dell’opera missionaria e suor Nemesia nel suo grande zelo per la religione, nella sua grande carità per gli infelici che ancora non avevano ricevuto la luce della nostra fede, cominciò ad inviare al Padre Michele da Carbonara, prefetto apostolico, aiutata da anime buone che comprendevano tutta la bellezza dell’opera, arredi sacri e aiuti finanziari.

Una sua ex educanda ricorda come suor Nemesia inculcasse nelle sue allieve lo spirito missionario e le animasse a lavorare per le missioni”.

Suor Nemesia non fu solo sostenitrice materiale dell’opera del grande cappuccino, ma ne comprese a fondo la vocazione. Quando nel 1888 il cinquantaduenne mons. Giuseppe Carbone, brillante sacerdote stimato anche nell’ambiente culturale laico della Diocesi, lasciò il prestigioso incarico di vicario generale per farsi cappuccino, non pochi considerarono questa cosa un’assurda bizzarria; altri scommettevano che non sarebbe durato alla dura regola francescana, tra cui la sua domestica, che si ostinava a non cercare un altro impiego.

Fu la nostra beata alla fine a persuaderla che il canonico Carbone avrebbe perseverato e avrebbe fatto un mare di bene. Lei infatti sapeva cosa c’era nel cuore di quel grande uomo, di cui aveva raccolto le confidenze e che aveva aiutato a realizzare la volontà di Dio. Così da Velletri le scrive il canonico Carbone, allora semplice aspirante cappuccino: “Buona Suor Nemesia, grazie per tante attenzioni per me usatemi da Lei e dalle sue buone Suore. Che tutti preghino! Spero, sì, di tornare a rivederle, ma vestito del mio sacco di San Francesco e con la barba lunga una spanna”.

Altro grande missionario beneficato dalla carità di suor Nemesia fu il torinese padre Giovanni Bricco, appartenente al PIME. Figura poliedrica e affascinante fu un vero ponte fra due mondi, quello italiano e quello cinese; da militare dell’esercito italiano, divenne prete e visse per 30 anni come missionario in Cina, in quel momento convulso a cavallo dei due secoli XIX e XX. Se pensiamo che, nonostante le quotidiane difficoltà economiche in cui versava, suor Nemesia aveva il cuore pronto e generoso a sostenere le missioni, comprendiamo i tratti autentici della sua santità. “Io la seguirò sempre con la mia preghiera”

Le attenzioni di suor Nemesia erano per tutti, soprattutto per i più piccoli, evangelicamente parlando. Così il suo rammendare le calze dei seminaristi poveri come scrivere le lettere per i soldati non troppo acculturati. I seminaristi, giovani e pieni di vita, avevano sempre un appetito invidiabile in tempi di restrizioni e povertà; il seminario era attiguo all’istituto San Vincenzo e, a quei tempi, le suore della Carità vi prestavano servizio in cucina. Suor Nemesia da una finestrella porgeva loro segretamente pane e frutta, raccolti dall’inesauribile intreccio della sua carità provvidente.

Una bella testimonianza di un sacerdote tortonese, uno tra i tanti da lei beneficati, racconta quel suo cuore tenero di madre. Si tratta di don Carlo Codevilla, poi divenuto arciprete di Medassino. Così tramanda le attenzioni della beata durante gli anni del seminario: “Mi chiamava, perché orfano di padre fin dall’infanzia, l’orfanello del Sacro Cuore, e mi consacrò e volle che anch’io mi consacrassi, ancora studente, al Sacro Cuore, di cui ella era in modo specialissimo devota (…) Una sua caritatevole cugina di Donnaz in Val d’Aosta mandava per me di tanto in tanto una somma di denaro che suor Nemesia chiamava stille d’argento, somme che mi consegnava sorridente di soddisfazione perché durante le vacanze mi curassi e mi sostenessi con cibo più abbondante. Né credo facesse questo solo per me”.

Quando don Carlo divenne parroco di Medassino, suor Nemesia si premurò di dargli dei profondi consigli spirituali, com’egli stesso testimonia: “Il suo primo atto sia quello di consacrare la sua popolazione al Cuore di Gesù! Nei suoi dubbi, nelle sue necessità, nei suo bisogni sia spirituali che temporali ricorra sempre al Sacro Cuore e alla Madonna, madre dei sacerdoti. Quando verranno le delusioni, quando verranno le prove dolorose, guardi il Crocifisso. Faccia del bene, tanto bene alle anime: io la seguirò sempre con la mia preghiera”.

Una bella testimonianza di un sacerdote tortonese, uno tra i tanti da lei beneficati, racconta quel suo cuore tenero di madre. Si tratta di don Carlo Codevilla, poi divenuto arciprete di Medassino. Così tramanda le attenzioni della beata durante gli anni del seminario: “Mi chiamava, perché orfano di padre fin dall’infanzia, l’orfanello del Sacro Cuore, e mi consacrò e volle che anch’io mi consacrassi, ancora studente, al Sacro Cuore, di cui ella era in modo specialissimo devota (…) Una sua caritatevole cugina di Donnaz in Val d’Aosta mandava per me di tanto in tanto una somma di denaro che suor Nemesia chiamava stille d’argento, somme che mi consegnava sorridente di soddisfazione perché durante le vacanze mi curassi e mi sostenessi con cibo più abbondante. Né credo facesse questo solo per me”. Quando don Carlo divenne parroco di Medassino, suor Nemesia si premurò di dargli dei profondi consigli spirituali, com’egli stesso testimonia: “Il suo primo atto sia quello di consacrare la sua popolazione al Cuore di Gesù! Nei suoi dubbi, nelle sue necessità, nei suo bisogni sia spirituali che temporali ricorra sempre al Sacro Cuore e alla Madonna, madre dei sacerdoti. Quando verranno le delusioni, quando verranno le prove dolorose, guardi il Crocifisso. Faccia del bene, tanto bene alle anime: io la seguirò sempre con la mia preghiera”.

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