«Le storie non buone sono quelle che non cercano la verità»

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54^ Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali: Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, riflette sul Messaggio di Papa Francesco

Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, riflette sul Messaggio di Papa Francesco per la 54^ Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali sul tema “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria’ (Es 10,2). La vita si fa storia” che è stato presentato a Roma venerdì 24 gennaio, giorno della festa di san Francesco di Sales, protettore dei giornalisti.

Perché il Papa, tenendo presente anche il suo profondo legame con la comunità di appartenenza, ha sentito il bisogno di passare dall’idea del comunicare a quella del “raccontare”?

«Perché sono i racconti che tessono le nostre identità. In principio era il Verbo. E – come scrive il Papa nel suo messaggio – “per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme”».

Immersi nel flusso quotidiano delle notizie, chiamati ogni giorno a scegliere cosa dire, quando, come operatori dell’informazione, passiamo dalla comunicazione (importante) al racconto che dà vita?

«Quando riusciamo a dare un senso razionale ed emotivo insieme a questo flusso ininterrotto. Quando gli diamo un dinamismo positivo, una prospettiva. Quando oltre ai problemi individuiamo le vie d’uscita; oltre al male la redenzione possibile. Quando riusciamo a ricondurre ad unità la globalizzazione frammentata che caratterizza il nostro tempo».

Immergersi nella storia, nelle storie di ogni giorno, per diventare esperti di vita vera. Come fare?

«Una volta, in una sua intervista, Christian Amanpour ha detto che “il compito del giornalista è raccattare una storia in una situazione in cui la verità non è sempre appurabile”. E che l’unica esclusiva che possiamo veramente difendere è quella che ci deriva dal rapporto vero, diretto, con le persone”. Era un modo per affermare – credo – che la verità è sempre una ricerca. E che la ricerca nasce dall’indagine della realtà. Cioè dal camminare dentro le storie che fanno la Storia. Per i media di ispirazione cristiana questo significa evitare la tentazione di rappresentarci come un mondo separato, di pensarci come uno specchio pago di raccontare se stesso».

Raccontare a Dio la propria storia significa anzitutto accoglierla, non rifiutarla immaginandone una migliore. Cosa fare come credenti e specificatamente come operatori dei media, per essere consapevoli o almeno in grado di raccontare a Dio la propria storia?

«Per essere consapevoli – penso – bisogna recuperare il senso del limite. Per raccontare a Dio, bisogna saperlo riconoscere Dio, come solo i puri di cuore sanno fare. Tornano alla memoria le parole bibliche di Papa Francesco a Lampedusa. All’inizio del suo pontificato. “Adamo, dove sei?”: Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché ha creduto di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe.L’unità diventa divisione. E Dio pone la seconda domanda: “Caino, dov’è tuo fratello?”. Riscoprirci fratelli ora è difficile. È un cammino. E l’importante – come diceva don Primo Mazzolari – è non scambiare la strada per un punto di arrivo e di possesso».

Spesso lo storytelling è visto negativamente, anche nell’ambiente della Chiesa, perché abbinato alla narrazione politica che ha come unico scopo la manipolazione ai fini elettorali. Ma è davvero così?

«Come sempre è una questione di responsabilità. E la responsabilità non è un contenuto, è un modo di essere. La narrazione può essere intessuta di verità o di falsità, di uno sguardo puro o di uno sguardo duro, di pregiudizi o di misericordia, di ricerca del bene comune o di compiacimento nel racconto del male. Sta a noi dare alla narrazione lo stesso significato, la stessa funzione che gli ha dato e che gli da Dio. Sta a noi tessere la nostra storia per la parte che ci è data. Sta a noi non sottrarci alla responsabilità che ci compete. Oggi forse più che mai».

Non tutte le storie sono buone, si legge nel messaggio, ma vale la pena raccontare anche quelle cattive? E se sì, perché?

«Le storie non buone sono le storie raccontate male. Sono le storie che non cercano la verità ma la manipolano; sono le storie che non svelano la menzogna ma la usano. Quando ero un giovane giornalista un vecchio collega mi disse che dovevo abituarmi a non scartare mai un titolo accattivante per esser fedele alla verità dei fatti. Scherzava. Ma non troppo. In ogni caso non mi sono mai abituato. Né da giornalista né da fruitore dei media».

Amerigo Vecchiarelli – direttore del SIR

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