La dottoressa Roscini: «I malati non sono soli»

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Ospedale di Tortona: si è parlato di tutto in queste settimane ma poco si è detto di un reparto “delicato”, la Nefrologia

Dalla fine di febbraio l’ospedale “Santi Antonio e Margherita” di Tortona è stato travolto dallo tsunami del Coronavirus che ha creato uno stravolgimento totale nella realtà sanitaria locale.

In breve tempo la struttura da nosocomio avviato al ridimensionamento è stata trasformata in “Covid Hospital”, cioè “centro di eccellenza” per la cura della pandemia.

All’interno vi lavorano medici e personale sanitario che, da due mesi, sono in prima linea per affrontare il nemico invisibile e contenere i danni del contagio. Si è parlato soprattutto del Pronto Soccorso, della Rianimazione e della Medicina ma poco si è detto di un’altra unità molto importante che è quella della Nefrologia, da cui dipende l’ambulatorio della dialisi extracorporea e peritoneale, del trapianto di rene, dei pazienti affetti da malattia renale cronica e avanzata.

A introdurci in questo reparto è la nefrologa tortonese Elisabetta Roscini che ci ha raccontato come, insieme a tutti i suoi colleghi, si sta affrontando la crisi in corso.

«La Struttura di Nefrologia dell’Asl Alessandria, diretta dal primario Giovanni Calabrese, – spiega – si compone di due centri ospedalieri (Novi Ligure e Casale Monferrato) e di due centri dialisi ad assistenza limitata (Tortona e Valenza). La realtà nefrologica è poco conosciuta, ma la nostra è una vera e propria piccola comunità formata da un centinaio di pazienti in emodialisi suddivisi tra Tortona e Novi Ligure, da 20 pazienti in dialisi peritoneale, da 40 pazienti trapiantati di rene e da circa 200 pazienti affetti da malattia renale avanzata in follow up clinico stretto.

All’inizio dell’epidemia si è deciso rapidamente di dializzare i pazienti sospetti di sera, di notte e di domenica per isolarli il più possibile.

Ci siamo impegnati a fare i tamponi naso faringei in autonomia per un primo screening. Dopo qualche settimana sono stati presi in gestione anche alcuni pazienti di Casale Monferrato e uno di Acqui Terme».

La comunità dei dializzati vive, per tre giorni la settimana e per quattro ore consecutive, chiusa in una sala, dove è più elevato il rischio di trasmissione di malattie infettive, ma in cui il personale è già abituato a limitarne la diffusione. Le dialisi avvengono a giorni alterni, mattino e pomeriggio.

I malati sono fragili, perché immunodepressi, spesso con altre complicanze cliniche e quindi ad alto rischio infettivo.

Dalle parole della dottoressa emerge la grande tensione vissuta nelle prime settimane, dovuta al fatto di lavorare in emergenza, riorganizzando giorno per giorno i nuovi turni di dialisi grazie all’abnegazione di infermieri, caposala e operatori socio sanitari (OSS) che si sono completamente resi disponibili a collaborare.

I pazienti, dal canto loro, avevano negli occhi la paura e la fame d’aria: «Avevano bisogno di qualcuno vicino che li tranquillizzasse perché avevano allucinazioni ed erano agitati».

«La difficoltà più grande – aggiunge – è stata l’organizzazione pratica per impedire che i dializzati sani entrassero in contatto con i positivi o con quelli a rischio per cui abbiamo sempre lavorato garantendo sedute di dialisi in contumacia anche per i sospetti».

Per il personale sanitario è stato ed è molto complicato gestire i rapporti familiari e preoccuparsi di tutelare figli e mariti a domicilio il più possibile, cercando in ogni modo di lasciare il virus fuori dalla porta.

La situazione è migliorata con l’arrivo del commissario dell’Asl che si è reso, più volte, disponibile ad ascoltare e ad affrontare le criticità.

«Il nostro lavoro era in divenire – afferma la dottoressa Roscini – giorno per giorno, di fronte alla criticità e ai problemi. Insieme si è cercato di trovare soluzioni per tutto. All’inizio abbiamo imparato a gestire ogni spostamento di pazienti sospetti tra l’ospedale di Novi Ligure e Tortona, abbiamo avviato da subito il triage pre-dialisi, misurando la temperatura corporea e fornendo mascherine a tutti i pazienti per evitare l’ingresso di potenzialmente infetti, ponendo attenzione alle modalità di trasporto da e per il centro dialisi, telefonando ogni giorno ai pazienti da dializzare per conoscere la loro condizione di salute ed eventualmente fare dialisi in isolamento fisico».

«Per la dialisi peritoneale – continua – abbiamo attivato una sorveglianza con servizio di telemedicina tramite contatto telefonico e mail per visione di esami in modo da garantire le visite urgenti; per i pazienti più fragili sono iniziate le visite infermieristiche domiciliari comprensive di prelievo ematico con successiva telefonata del medico per le variazioni di terapia».

I trapiantati di rene sono per tutta la vita in terapia immunosoppressiva quindi più suscettibili di malattie infettive e tumori; ci sono stati casi di persone positive prontamente gestite in collaborazione col Centro Trapianti di Novara.

Per i medici la prematura scomparsa di alcuni pazienti è stata motivo di dolore perché con tutti loro si era instaurato nel tempo un rapporto particolare che superava il discorso puramente di cura.

«Molto incoraggiante è stata la solidarietà – ricorda la dottoressa – grande e generosa nei confronti di noi medici e degli operatori sanitari: il mio reparto ha ricevuto in dono mascherine e materiale per la protezione personale».

Lei e i suoi colleghi hanno percepito la vicinanza delle persone e, grazieal Comitato per l’ospedale, hanno ricevuto in dono l’Osmosina ovvero un sistema di osmosi portatile per la dialisi.

La fatica, il dolore e la paura non hanno mai avuto il sopravvento perché medici e personale hanno sempre lottato con grinta per sconfiggere il virus, non da eroi ma da professionisti con serietà, dedizione e tanto cuore.

Daniela Catalano

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