Buzzati e quella maglia di lana

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Un Vescovo con la passione per la bicicletta: Mons. Vittorio Viola saluta il Giro

Nel 1949 Dino Buzzati fu inviato dal Corriere della Sera come cronista al Giro d’Italia. E che Giro! Nell’Italia appena uscita dalla guerra l’evento andava ben oltre al suo valore sportivo diventando una festa di popolo, un momento di rinascita, di unità nazionale, pur dividendosi nel duello tra Coppi e Bartali che Buzzati non ebbe timore di raccontare scomodando Omero, nel paragonare il primo ad Achille e il secondo a Ettore. In una di quelle venticinque memorabili cronache (Non tramonterà mai la fiaba della bicicletta, giugno 1949), Buzzati si domanda se «una faccenda stramba e assurda come il Giro d’Italia in bicicletta» – così doveva davvero apparire agli occhi di chi, come lui, prima di quel Giro non aveva mai visto una corsa ciclistica su strada – possa avere una qualche utilità. Ecco la sua risposta: «Certo che serve: è una delle ultime cittadelle della fantasia, un caposaldo del romanticismo, assediato dalle squallide forze del progresso e che rifiuta di arrendersi. Guardateli, mentre pedalano, pedalano tra campi, colline e selve. Essi sono pellegrini in cammino verso una città lontanissima che non raggiungeranno mai: simboleggiando in carne ed ossa, come in un quadro di pittore antico, la incomprensibile avventura della vita. E questo è romanticismo puro. Sono dei cavalieri erranti che partono a una guerra senza terre da conquistare: e i giganti loro nemici assomigliano ai famosi mulini a vento di Don Chisciotte, non hanno membra e volti umani, si chiamano distanza, gradi di inclinazione, sofferenza, pioggia, paura, lacrime e piaghe. E anche questo è romantico abbastanza » (Dino Buzzati al Giro d’Italia, pp. 122-123).

Chissà se l’eclettico cronista avrebbe scritto oggi queste parole. Il movimento del ciclismo italiano non è in buone acque. Un esempio? Nella Liegi-Bastogne- Liegi del 2002 – la “decana” delle classiche del nord – i primi cinque erano italiani: Bettini, Garzelli, Basso, Celestino, Codol. Nell’edizione di quest’anno, il primo degli italiani è stato Formolo che ha chiuso la gara al sedicesimo posto. Un altro esempio? Non c’è nemmeno una squadra italiana nel World Tour. Non voglio avventurarmi in analisi non alla mia portata ma è evidente che occorre fare qualcosa per difendere il ciclismo italiano e, in generale, la bellezza di questo sport. Il doping non è il primo problema. Intendiamoci: è questione molto grave, che, per inciso, non si risolve immolando un campione come Pantani senza andare poi a vedere che cosa accade nelle categorie inferiori. Ritengo, tuttavia, che ancor più grave è un sistema “dopato” perché esaspera i giovani: il “romanticismo” di Buzzati è soffocato fin dalle categorie minori da cardiofrequenzimetri, misuratori di potenza, tabelle di allenamento da professionisti. Espressioni come “sentire la gamba” sembrano appartenere ai Flintstones: adesso devi calcolare la potenza in watt, tenendo conto della velocità ascensionale media (VAM), del dislivello, del tempo di percorrenza, conoscendo la pendenza media (in percentuale) della salita, la velocità media e la distanza. Vedi un po’ se poi ti riesce di divertirti andando in bici. Follia.

In queste mie considerazioni spero di non essere condizionato solo dalla nostalgia per un ciclismo che non vedo più. Quando da esordiente correvo nella mitica società “Pedale biellese” – espressione del più puro mecenatismo sportivo (tradotto: non c’era una lira) – avevamo maglie di lana che con la pioggia arrivavano alle ginocchia e pesavano più di noi e gli allenamenti erano gite esplorative di ragazzi che si divertivano pedalando. Adesso gli allievi hanno lo stipendio. E i soldi, come spesso accade, portano con sé diversi guai. Non ti puoi stupire, poi, del doping, quello chimico: la Federazione deve fare anzitutto attività formativa cercando di restituire al movimento giovanile la dimensione del gioco, del divertimento. Nonostante tutto ciò, il Giro è riuscito a custodire nella gente quella epicità e quel romanticismo che Buzzati ha descritto magistralmente. Per questo accogliere nei nostri paesi la 18a tappa con arrivo a Stradella è per noi motivo di festa, che oggi, come nel ’49, ci fa bene.

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