Il “vestire gentile”

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di Patrizia Ferrando

Sicuramente vi è capitato di sentir definire l’abbigliamento di una persona, più di frequente una signora o una ragazza, “bon ton”. Se ci soffermiamo un momento, osserviamo come nota dominante un certo senso della misura: lunghezze medie, piccoli scolli, colori discreti o accostati in maniera sapiente, nessun eccesso in termini di decorazione o accessori. Se la si sgancia dall’etichetta più commerciale, che fa pensare solo ad abiti da cocktail o camicette sfoggiate a oltranza, la moda bon ton, unita a una dirimente chiarezza su formalità e informalità e occasioni d’uso, potrebbe costituire le fondamenta di un “vestire gentile”. Con un po’ di elasticità ed esperienza diventa facile suddividere i capi e i materiali. Una borsa grande e pratica sta tra le attività di lavoro e le incombenze varie, una piccola porta verso una serata fuori o una cerimonia. Il tweed sa di sportivo, molto più di un misto lana e seta; la formalità del velluto liscio ha corrispettivo casual nel velluto a coste. Gli esempi possono essere molteplici, per svilupparli basta entrare nel meccanismo. Un paio di annotazioni merita il lungo capitolo dei gioielli e della bigiotteria. Ormai decaduta la regola che li proibiva prima di pranzo, resta il buon senso: ovviamente una sottile catenina con ciondolo sta bene anche su un golf per la mattinata in ufficio, scintillanti ed enormi orecchini a lampadario richiedono altri scenari. L’importante sarà sempre evitare il famigerato effetto “Madonna del Petrolio”!

Se a ogni età e occasione, o quasi, si prestano un lieve filo di perle e piccoli orecchini di brillanti, ci sono moltissime “gioie” che, insieme ad altri elementi del “superfluo relativo” (una sciarpa, un fiore di tessuto) giocano come vettori di personalità.

Perché, non di rado, l’obiezione sui concetti di bon ton del vestire sono sul non volersi omologare o sul ritenere poco libera la propria espressione. Per dire qualcosa basta un dettaglio: Madeleine Albright, ambasciatrice USA presso l’ONU e poi Segretario di Stato durante la presidenza Clinton ne fece addirittura un motto: «Leggete le mie spille». L’idea, involontariamente, gliela diede Saddam Hussein che la definì un «serpente senza eguali».

Cosi Madeleine Albright, quando doveva occuparsi della questione irachena, indossava una spilla a serpente.

Celeberrime rimangono le tre scimmiette, non vedo-non sento-non parlo, sul silenzio di Putin sulla Cecenia.

Ma non sempre erano segnali negativi. Da Nelson Mandela andò con preziose zebre appuntate sulla spalla. Imitarla alla lettera non credo sia consigliabile, ispirarsi sì.

patrizia.marta.ferrando@gmail.com

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