«Piacere» non si dice

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di Patrizia Ferrando

Abbiamo bisogno delle buone maniere? La domanda è retorica solo in apparenza. Mi presento cominciando da un punto interrogativo, perché spero che insieme faremo un viaggio interessante, e ringrazio Il Popolo per l’opportunità di esplorare con voi il mondo del cosiddetto bon ton, scoprendo soluzioni pratiche e molti perché celati nei comportamenti e nella vita sociale. Il galateo, inteso come insieme di norme relativamente variabili, e i galatei, vale a dire i libri che raccolgono e spiegano quelle stesse norme, sono mie passioni fin da ragazzina, tanto che ho finito col farne materia di studio.

Ma torniamo alla domanda iniziale, e alle possibili risposte.

Delle buone maniere potremmo avere bisogno, ad esempio, per non cadere nelle maglie della comunicazione aggressiva, che ogni giorno balza verso di noi dai social e non solo; il galateo può sostenerci nel difficile compito di sentirci a nostro agio in situazioni diverse, e di ascoltare e accogliere gli altri con piena cortesia, e ci è d’aiuto per circondarci della preziosa bellezza dei gesti quotidiani.

Ma c’è una ragione più importante, e che, a mio avviso, contiene tutte le altre, per mettere le buone maniere nel nostro bagaglio: sono il linguaggio della gentilezza, e quindi dell’autenticità.

Qui immagino qualche obiezione: molti, infatti, pensano al lato “decorativo” del bon ton, a lezioncine e rituali che smorzano la spontaneità.

Questa rubrica aspira, però, a occuparsi di gentilezza, e non a caso ho usato la parola “linguaggio”.

Se impariamo a memoria un paio di frasi di una lingua ignota, potremmo forse trarre in inganno qualcuno, solo per breve tempo e comunque senza apprendere nulla. Solo se conosciamo i significati possiamo esprimerci e comprendere gli altri. Per le buone maniere vale lo stesso: sono vocabolario e grammatica del vivere gentile. E niente può essere gentile se non è anche sincero.

Un minimo esempio, a proposito di primi incontri: in qualunque manuale leggerete che non si dice «piacere».

Perché? Non si tratta di espressione sgarbata, ma di una formula vuota.

Molto meglio presentarci con un sorriso, un saluto e il nostro nome, fiduciosi nel poter esprimere reciproca gioia di aver incontrato l’interlocutore dopo aver conversato, e a quel punto dire che siamo lieti pensandolo davvero… o congedarci con correttezza e senza troppi fronzoli se, sfortunatamente, proprio un piacere quella conoscenza non si è rivelata.

patrizia.marta.ferrando@gmail.com

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