Pertini: «Non ci prendono più!»

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40 anni fa, l’11 luglio del 1982, la nazionale italiana di calcio vinceva una leggendaria Coppa del mondo. Un successo che è entrato nella storia più di ogni altro. E che ha segnato un passaggio nella vita del Paese

di Luca Rolandi

11 luglio 1982. Quella sera oltre 37 milioni di italiani si sintonizzarono sul primo canale della tv di Stato per assistere alla finale della Coppa del mondo di calcio. Il contesto era assai diverso da oggi, una Italia che stava uscendo dagli anni bui del terrorismo e che fronteggiava l’instabilità politica e la crisi economica con l’inflazione al 20%. Il primo ministro era un laico, il repubblicano Giovanni Spadolini, dopo 35 anni di capi del governo della Democrazia Cristiana; presidente della Repubblica era il partigiano socialista Sandro Pertini; l’Italia vedeva la luce fuori dal tunnel e si apriva un decennio di effimero benessere, di edonismi e ricchezze insperate, che avrebbero minato il rigore morale della generazione che aveva portato il Paese alla libertà e alla democrazia.

Quella notte e in quei due mesi del 1982 i ragazzi di Enzo Bearzot, grande uomo prima che grande allenatore, furono il simbolo del passaggio dagli anni Settanta al decennio successivo, animati però da valori umani, morali oltre che tecnici e agonistici superiori. I loro nomi sarebbero diventati leggenda come il grande Torino perito a Superga o la grande Inter di Herrera, il Milan di Rivera, la Juve di Boniperti. L’Italia non vinceva un mondiale dai tempi del fascismo con Vittorio Pozzo, la doppietta ’34-’38, poi nulla più, il successo agli Europei del ’68 e la finale persa di Città del Messico con il Brasile nel 1970, dopo la mitica sfida con la Germania per 4-3. E ancora la Germania era l’ultimo ostacolo di una cavalcata trionfale.

Ma non era iniziata bene per i ragazzi del Vecio. Le polemiche per le mancate convocazioni di Beccalossi e Pruzzo, l’infortunio a Bettega, il richiamo di Paolo Rossi fermo da due anni dopo il calcio scommesse del 1980. Il friulano poteva contare su un capitano anche lui friulano di nome Dino Zoff, allora quarantenne, un monumento che abbinava la forza del campione alla statura morale dell’uomo etico e con lui il giovane Gaetano Scirea, morto poi giovanissimo nel 1989 in un incidente in Polonia. Le polemiche e i fischi, le urla dei giornali e dei processi televisivi (non c’era internet con tutto il suo corollario), il ritiro ad Alassio e poi quello in Galizia a Vigo. Nessuno ci credeva, solo i 22 e il Vecio. Eppure la sua era una squadra matura che in Argentina quattro anni prima aveva fatto vedere un calcio spettacolare e avrebbe potuto arrivare in finale. Proprio Zoff fu criticatissimo per i due gol subiti contro l’Olanda nella semifinale. Il blocco della Juventus del Trap era la spina dorsale con gli innesti di grandi faticatori ma di qualità come gli interisti Lele Oriali (a cui il cantautore Ligabue dedicherà una canzone per esaltarne il ruolo), Gianpiero Marini e il giovanissimo Beppe Bergomi lanciato in campo da Bearzot a 18 anni e il centravanti Spillo Altobelli, poi il funambolo romanista Bruno Conti, un brasiliano a Nettuno, l’elegante Giancarlo Antognoni, cuore viola, i granata Ciccio Graziani e Franco Selvaggi e il coriaceo stopper di mille battaglie, allora sotto la bandiera rossonera, Fulvio Collovati. Il secondo di Bearzot era Cesare Maldini, grande maestro di calcio, Vecchiet il medico, Vantaggiato e Perricone gli accompagnatori, più defilato Sordillo, presidente della Figc.

Nel girone eliminatorio l’Italia passò per differenza reti: tre pareggi, partite sbiadite e critiche pesantissime. Soprattutto al pallido Paolo Rossi, agli sfaticati Marco Tardelli e Antonio Cabrini, alla inconsistenza dell’attacco. Solo le grandi firme Oreste del Buono, Gianni, Brera, Mario Soldati, Giovanni Arpino e pochissimi altri cronisti avevano visto negli occhi degli azzurri in silenzio stampa per le troppe accuse la voglia di riscatto, la missione impossibile da realizzare. E così fu. Una cavalcata nella fase finale e decisiva mai più vista per la nostra nazionale che avrebbe rivinto nel 2006 e nel 2021 ma non con la limpidezza e la prova di forza e di coraggio come nel 1982. Gli avversari si chiamavano Argentina, campione del mondo con Maradona, e Brasile, incontrato a Barcellona, in uno stadio di periferia, il Sarrià. I brasiliani schieravano una delle squadre più forti dell’era moderna, in verità con un portiere non all’altezza e un centravanti spuntato, ma con Zico, Cerezo, Dirceu, Junior, Socrates, Falcao. Grazie a un Pablito Rossi in stato di grazia e a uno Zoff miracoloso allo scadere, furono sconfitti per 3-2 dagli azzurri nell’ultima vittoria sui carioca dell’Italia e forse nella partita più bella di sempre della nostra nazionale. In precedenza, Claudio Gentile, detto Gheddafi, aveva fermato Maradona e Tardelli e Cabrini infilzato i gauchos, poi il terzinaccio della Juve aveva messo la museruola al grande Zico e da lì via con il super Rossi fino al Bernabeu, dopo la pratica Polonia, priva di Boniek, superata senza affanni.

L’Italia aspettava da decenni una vittoria scaccia pensieri, un successo che voleva dire molto di più di un successo sportivo e così fu con la solita Germania, allora Ovest. Cabrini sbagliò un rigore, poi Paolo Rossi, l’urlo di Tardelli, dopo una azione in contropiede da manuale e infine lo spiritato Altobelli. A ogni rete il presidente Pertini che si alzava e mimava lo storico “non ci prendono più”. La coppa al cielo di Madrid con Dino Zoff, l’Italia in festa in ogni angolo del Paese, il ritorno sull’aereo presidenziale con la sfida a scopone tra Zoff, Causio, Pertini e Bearzot.

Un sogno che diventava realtà e come scrisse il mai dimenticato direttore del Popolo di allora Pier Giovanni Agnes sulle colonne di questo settimanale, “è finita come nessuno aveva previsto e sperato. Neanche loro ci credevano. Neanche lo sognavano. Non s’aspettavano si compisse il prodigio. Bastava, a loro, qualche raggio di gloria. Adesso che i nostri calciatori si sono aureolati campioni, diluvia il sentimento… Passata la festa, ognuno è con se stesso. Con i problemi, le difficoltà, le angustie, le prospettive, i programmi di prima e di sempre. Il gioco ci ha trastullati abbastanza. Ma la vita non è un gioco. È più seria di qualsiasi gioco”.

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