Il dominio dei vescovi di Tortona sul “Vescovato”

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Dedichiamo “un capitolo” della storia dell’episcopato tortonese a una porzione della diocesi che si estendeva dalla confluenza del Borbera nello Scrivia fino al corso del torrente Grue

Non si può parlare della storia dell’episcopato tortonese senza ricordare il secolare dominio temporale che i vescovi di Tortona esercitarono su una porzione della diocesi, chiamata il “Vescovato”, che si estendeva dalla confluenza del Borbera nello Scrivia fino al corso del torrente Grue, comprendendo i borghi, i castelli e le terre di Stazzano, Sardigliano, Cuquello, Malvino, Gavazzana, Sant’Agata, Carezzano inferiore e superiore, Ripario, Perleto, Podigliano, Sant’Alosio, Costa, Sarizzola, Spineto, Lugagnano Sant’Andrea, Basilica, Mossabella, Bavantore, Bavantorino, Marignano, Giusulana, Castellania e Garbagna, quest’ultima fintanto che non venne usurpata nel XIV secolo.

L’“Alto e Pieno Dominio”

La giurisdizione episcopale su questi luoghi non era un’infeudazione, ma un “alto e pieno dominio”, cioè un potere assoluto non delegato; comprendeva il “mero et mixto imperio”, l’autorità di amministrare la giustizia fino alla “potestas gladii”, cioè alla possibilità di emettere sentenze capitali. Il Vescovato era uno stato sovrano e indipendente, coi suoi confini ben delineati e la sua capitale, posta in Carezzano, dove risiedeva il vicario “in temporalibus”, che governava il territorio in nome del vescovo, signore assoluto.

Nessun giuramento di fedeltà e nessun tributo era dovuto dal vescovo di Tortona ad alcun imperatore, re o signore, per le terre del Vescovato, che gli pertinevano in modo immediato nel momento in cui prendeva possesso della sede episcopale tortonese. Quando l’imperatore Enrico VII (l’Arrigo in cui Dante riponeva le sue speranze politiche) invitò il vescovo Giacomo Calcinara a riconoscere quanto da lui posseduto come dipendenza del Sacro Romano Impero, egli il 23 marzo 1313 coraggiosamente replicò che il suo stato mai fu considerato un feudo di diritto imperiale; questo lo poteva affermare dopo aver scrutato con attenzione gli istrumenti giuridici dell’archivio vescovile, pronto a prestare il giuramento di fedeltà qualora l’imperatore potesse provare il contrario. Solo al Papa i vescovi tortonesi prestavano giuramento di conservare integri “i diritti, gli onori e le giurisdizioni della Chiesa di Tortona” sulle terre del Vescovato.

L’origine dello stato vescovile

È difficile ricostruire l’origine di questo stato indipendente di pertinenza del vescovo sulle colline a sud di Tortona, come anche l’epoca dell’inizio di tale giurisdizione. Gli storici non sono per nulla concordi e le ipotesi avanzate sono diverse.

La più verosimile per giustificare l’“alto e pieno dominio” è la donazione pontificia alla cattedra tortonese di parte di quelle terre che il re longobardo Ariberto II aveva devoluto al Patrimonio di San Pietro nel 706 e che i suoi successori, Giustiniano II e Liutprando, avevano a loro volta confermato, rispettivamente nel 711 e nel 716. Ancora più discussa è l’epoca in cui i vescovi di Tortona iniziarono ad esercitare il potere temporale sul Vescovato, spesso confondendo – a mio avviso – questa giurisdizione “immediata e piena” con i diritti feudali derivanti dall’investitura dei presuli tortonesi a Conti di Tortona e signori di altre località della diocesi. Infatti, se l’imperatore Ottone II investe il vescovo Gerberto della “districtio”, cioè della concessione dei poteri pubblici su Tortona, Voghera e altre località della diocesi, nel 979, e se si può far risalire a Enrico III (1039-1056) l’istituzione del vescovo-conte in Tortona, siamo nell’ambito delle concessioni feudali. Ritengo che per l’esercizio del potere temporale sul Vescovato, per nulla di natura feudale come sempre rivendicato dai vescovi, si debba risalire a molto prima: alla Dieta di Pavia dell’875, in cui l’imperatore Carlo il Calvo riconobbe le signorie temporali dei vescovi del regno d’Italia.

Tale riconoscimento avvenne in forza della conferma che Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, fece nell’817 delle donazioni dei re longobardi al Patrimonio di San Pietro.

Quella data è la più pertinente per segnare l’inizio di un “alto e pieno dominio”.

Una strenua e indomita difesa

Non fu facile, lungo otto secoli, far rispettare i diritti della signoria episcopale dai potenti vicini che si susseguirono ai confini del Vescovato. La difficoltà si accentuava ulteriormente a motivo della posizione strategica del dominio vescovile, lungo la direttrice che dalla pianura portava al porto di Genova con i traffici mercantili che la attraversavano. Prima gli imperatori, poi i duchi di Milano, in seguito i governatori della Lombardia spagnola e infine i re di casa Savoia insidiarono la sovranità dei vescovi, cercando di trasformare l’“alto e pieno dominio” in investitura feudale. Non mancarono momenti di drammatico confronto, come quando sul finire del secolo XIV, nella lotta che oppone i Visconti alla repubblica di Genova e al marchese di Monferrato, Garbagna viene sottratta con la forza alla giurisdizione vescovile. Un duro scontro si protrasse per decenni, nel XVI secolo durante gli episcopati di Cesare e Maffeo Gambara, tra i vescovi di Tortona e i re di Spagna, divenuti duchi di Milano nel 1540 all’estinzione della dinastia sforzesca; non mancarono minacce di scomunica e anche fatti d’arme in diverse località del Vescovato tra le milizie vescovili, arruolate a suon di campana a martello, e i soldati spagnoli del presidio di Serravalle.

Il declino e l’estinzione del dominio

Nonostante l’intervento della Santa Sede, il vescovo Maffeo Gambara non volle mai piegarsi alla rinuncia dei suoi poteri sovrani sul Vescovato; fu solo alla sua morte, nel 1612, che si addivenne alla soluzione di riconoscere il Vescovato come parte del ducato di Milano, concesso in feudo ai vescovi di Tortona. Mons. Cosmo Dossena ricevette le antiche terre in feudo nel 1613. Tuttavia i suoi successori, Paolo Arese (1621-1644) e Giovanni Francesco Fossati (1645-1653) ripresero la vertenza presso il nuovo re di Spagna Filippo IV per essere ripristinati nel “primo, continuato e pacifico possesso” del loro stato, senza essere tenuti al giuramento feudale.

Di fatto ottennero diverse concessioni di autonomia ed esenzione, soprattutto in materia di tributi. Passata Tortona al regno di Sardegna con la Pace di Vienna del 1738, Carlo Emanuele III di Savoia chiese il giuramento di fedeltà ai feudatari delle nuove terre acquisite: il vescovo Ludovico de Andujar rifiutò con fermezza perché il Vescovato da sempre era separato da Tortona, pur essendo nella sua provincia. Per i Savoia quell’isola di dominio vescovile fu una vera e propria spina nel fianco e tentarono in ogni modo di porvi fine, ma il risoluto e lungo episcopato dell’Andujar non si piegò alle richieste regie. Fu solo con la nomina alla cattedra tortonese di un prelato molto vicino a casa Savoia, Carlo Maurizio Pejretti (1783-1795), che si giunse, col consenso della Santa Sede, alla rinuncia da parte del vescovo di Tortona ai diritti sulle terre del Vescovato, permutandoli con l’infeudazione perpetua di Campo Beato, ossia Cambiò, in Lomellina, elevato alla dignità di principato: era il 9 gennaio 1784.

Maurizio Ceriani

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