Il Concilio Vaticano II ha sessant’anni

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Era l’11 ottobre del 1962 quando fu aperto da Giovanni XXIII. L’anniversario non sia un momento di mera celebrazione ma occasione profonda di riflessione per ripartire nel cammino sinodale in corso

di Luca Rolandi

Nel 1966 un grande giornalista come Alberto Cavallari, in un libro-intervista, Il Vaticano che cambia, scriveva: “Il vero significato del Vaticano II non sarà riconosciuto che tra molti decenni e ogni rigida conclusione diviene imprudente”.

Riparto da qui per ricomporre un filo importante che lega la storia della Chiesa a quella del mondo in modo così profondo grazie proprio a quell’evento che ha cambiato la Chiesa stessa tra il 1962 e il 1965. Un evento che ha aggiornato la teologia, la pastorale, la dottrina nel solco della tradizione per avvicinare l’annuncio del Vangelo ai popoli.

Se a distanza di sessant’anni un Concilio non è stato recepito in maniera idonea, non è il caso di dichiararlo fallito? Benedetto XVI ha ammonito da una ingannevole lettura del Concilio, nello specifico relativamente all’ermeneutica della rottura; Francesco sta attuando il Concilio nella vita della Chiesa e nel rapporto con il mondo ma il dibattito è aperto su questo tema.

Dopo il discorso di Benedetto XVI alla Curia romana sulle ermeneutiche del Vaticano II del 22 dicembre 2005 è diventato abituale domandarsi se il Concilio abbia costituito una rottura con la tradizione precedente oppure sia da leggere in continuità con essa. Il problema non era nuovo nel dibattito teologico, ma la proposta del Papa, da lui ripresa in più circostanze anche negli anni successivi, di considerare il Vaticano II nell’alveo della tradizione, ha acceso gli animi e ha provocato confronti serrati. La questione poteva essere risolta in termini teorici: la Chiesa non conosce rotture, bensì rinnovamento continuo della sua identità che permane nei secoli, e quindi non aveva senso contrapporre epoche diverse facendo diventare il Concilio uno spartiacque. Ma poteva essere risolta anche osservando i contenuti dei documenti conciliari, che sembrano proporre aspetti di novità eclatante, e quindi considerando il Vaticano II una svolta decisiva nella vita della Chiesa. Se la prima soluzione può apparire ineccepibile per quanto attiene alla identità teologica della Chiesa, la seconda mette maggiormente in evidenza la condizione storica della medesima identità. Le due posizioni continueranno a confrontarsi a lungo. Peraltro andrebbe notato che Benedetto XVI non voleva affatto negare che il Vaticano II abbia introdotto novità: diversamente non avrebbe parlato di ermeneutica della riforma. Resta tuttavia il sospetto che quanti, anche appellandosi all’intervento del Papa, rimarcano la continuità vogliano sminuire la portata del medesimo Concilio e dei suoi documenti e quindi riproporre surrettiziamente un ritorno a pratiche e visioni tridentine. Peraltro, a questo riguardo si potrebbe osservare che lo stesso Concilio di Trento era stato in buona parte un Concilio di riforma, purtroppo non attuata compiutamente.

Il Concilio Vaticano II è già stato spesso definito come il Concilio della Chiesa sopra la Chiesa. La Chiesa, che era in cammino sulle strade della storia da duemila anni, prese più profondamente coscienza della propria essenza, in virtù della quale aveva già fino ad allora vissuto e aveva agito. Già nel discorso di apertura, tenuto l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII disse che compito di tale Concilio sarebbe stato quello di conservare integralmente e senza falsificazioni il sacro patrimonio della dottrina cristiana e di insegnarlo in modo efficace. Paolo VI disse la stessa cosa il 21 novembre 1964, in occasione della solenne promulgazione della costituzione sulla Chiesa Lumen gentium, unitamente al decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio. Egli affermò: «Questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo anche noi. Ciò che era, resta. Ciò che per secoli la Chiesa ha insegnato, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto ora è espresso, ciò che era incerto è chiarito; ciò ch’era mediato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione». Il fascino e l’entusiasmo del Concilio sono nel frattempo svaniti. È cominciato un tempo fatto di sobria considerazione dei fatti, in parte anche di valutazione critica degli eventi conciliari e soprattutto postconciliari. È succeduta una nuova generazione, per la quale il Concilio è un evento molto lontano e appartenente a un altro tempo, a un tempo nel quale essa non era ancor nemmeno nata e nei confronti del quale non ha alcun rapporto personale, come invece lo aveva la mia generazione. A questa nuova generazione occorre spiegare faticosamente quanto allora avvenne ed entusiasmarla nei suoi confronti. Per questo ci vuole una solida ermeneutica del Concilio. Non bisogna indubbiamente fare del Concilio un mito, nel quale ognuno proietta e trova i propri pii desideri. Occorre piuttosto interpretare con accuratezza i testi conciliari secondo le regole universalmente valide dell’ermeneutica teologica.

Tornando al Concilio, c’è da chiedersi che cosa concretamente del suo insegnamento sia stato metabolizzato dalla comunità dei credenti. E come bisogna guardare al futuro, come occorre pensare la Chiesa del terzo millennio. Credo che nella ricezione del Concilio abbia giocato un ruolo infausto proprio quella qualifica che invece ne costituiva la novità e il pregio, il fatto, cioè, che si trattasse di un Concilio “pastorale”. In effetti, il nodo era quello di passare da una comprensione “ingessata” della Chiesa a una “dinamica”, nella quale cioè stessero in stretto rapporto la Chiesa che sgorga dal mistero trinitario ed è Chiesa del Padre, del Figlio e dello Spirito, nella dinamica storico-salvifica che è propria alle divine persone. Ma la Chiesa è tale perché i suoi elementi teologici si intrecciano con l’evento umano nella compiutezza della differenza di genere e nella molteplice trama di relazioni che lo connota, nel suo habitat spazio-temporale e culturale. Perciò la Chiesa è innanzitutto Chiesa “nel luogo”, con le ipoteche concrete che vengono dalla femminilità-mascolinità o dalle differenti persone che la costituiscono, tutte segnate in profondità dalla cultura che connota quel luogo in quel tempo. Se guardiamo alla storia recente delle Chiese locali, costateremo come il passaggio del Vaticano II le abbia condotte a una rinnovata coscienza di sé e ne abbia attivato, assai più che in passato, le molteplici soggettività carismatiche e ministeriali. La speranza è che l’anniversario del Concilio Vaticano II non sia un momento di mera celebrazione ma occasione profonda di riflessione per ripartire nel cammino sinodale in corso per dire Dio oggi, attraverso la testimonianza del vangelo in dialogo con l’umanità.

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