Bruciato vivo a San Vittore

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Di Ennio Chiodi

Youssef non si è suicidato in carcere, come altre 77 persone (70 detenuti e 7 guardiani) che hanno, finora, deciso di farla finita nelle prigioni italiane nel corso del 2024. Youssef Mokhtar Loka Barsom è morto bruciato vivo nel carcere di San Vittore – Milano centro – il più affollato d’Italia, in un incendio provocato probabilmente per sollevare una delle tante rivolte che hanno agitato la vita dei penitenziari italiani in questa caldissima estate. Youssef “aveva già dato”, come si direbbe oggi. Di origini egiziane era sbarcato clandestinamente a Lampedusa, per raggiungere i familiari in Italia. Durante il “viaggio” era finito, in Libia, nelle mani di trafficanti che lo hanno torturato, come si usa fare da quelle parti, senza pietà, accentuando fragilità psichiche e fisiche che già lo indebolivano. Aveva appena compiuto 18 anni. Per questo si trovava in una prigione per adulti, ma era già passato dalle accoglienti celle del carcere minorile Beccaria, noto per le frequenti rivolte causate da condizioni insopportabili per i detenuti e per chi deve sorvegliarli. Dal Beccaria, dove le sue fragilità si erano aggravate, era stato trasferito – finalmente – in una comunità dalla quale, tuttavia, si era allontanato verso un destino che lo avrebbe portato inesorabilmente a San Vittore, a trovare la fine della sua brevissima e complicata esistenza. La storia di Youssef assomiglia a quella di molti altri giovani finiti tra le mura di istituti penitenziari che chiamare “galere” sarebbe più appropriato. Sovraffollamento oltre ogni limite accettabile; chiusura a oltranza dei detenuti nelle celle, per le difficoltà a garantire sorveglianza diffusa; totale mancanza di privacy anche nei momenti e nelle necessità più intime; convivenza forzata con ratti, scarafaggi e altri simpatici compagni di cella; abuso di psicofarmaci; disagi psichici crescenti e sottovalutati; carenza e scarsa preparazione del personale di polizia penitenziaria; abbandono graduale dei percorsi lavorativi e delle occasioni di formazione… Le denunce si susseguono, gli interventi non arrivano e la coerenza tra gli annunci e i provvedimenti latita. Voltaire è stato forse il primo a ricordarci, nel corso del XVIII secolo, che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Si era in pieno illuminismo. Chiederemmo troppo – di questi tempi – se invocassimo provvedimenti urgenti e sacrosanti in nome di valori come la tolleranza, la solidarietà, la giustizia e l’attenzione per i più deboli e lontani? Civiltà – un pizzico di civiltà in più– tuttavia, sì, come si conviene a un Paese che ritiene di essere moderno e democratico.

enniochiodi@gmail.com

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