Ho esultato troppo presto

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di Carlo Zeme

È l’ultima domenica di maggio, c’è il sole e fa caldo. Il campetto in terra battuta si è trasformato in San Siro, la gloria è l’unico titolo in palio, la democraticità dell’Oratorio mi mette titolare in campo, le venti sedie occupate oltre la rete indicano il tutto esaurito sugli spalti. Lancio lungo del portiere: «Chi fa questo vince» – urla con tutto il fiato che ha nei polmoni. La palla finisce sui piedi di Mattia, brasiliano nell’anima, mi serve un pallone perfetto. Io sono l’uomo giusto al momento giusto, è solo un cioccolatino da scartare, il portiere è fuori dai giochi, tiro. Palla fuori. Silenzio. Quindici anni dopo. È inverno, è il primo weekend di febbraio, fuori fa freddo, l’orologio digitale con i suoi numeri snelli e in giallo come quelli di un felino mi ricorda che sto dondolando tra le mie braccia Margherita da 36 minuti, oltre le finestre sul nostro piccolo balcone ancora non si vede l’alba, ma la luce che cambia entrando dalle tende ci fa capire che è quasi ora. Il piccolo collo che ho nell’incavo del gomito diventa piano piano sempre più morbido, la testa si appoggia sempre più lentamente, il mio cullare diventa quasi robotico, il respiro affannoso comincia a placarsi. Penso al piumone che mi aspetta, alla sveglia che domani non suonerà, alla frase che fieramente sussurrerò a Melina: «Tranquilla, si è riaddormentata». Sorrido, è fatta. Adagio Margherita tra le sponde del lettino, faccio piano, mi muovo come fossi Arsenio Lupin tra i raggi infrarossi del caveau di una banca, la appoggio e… apre gli occhi, piange, urla, tutto da rifare. Mi ricompare la faccia di Mattia dopo il gol che ho sbagliato all’oratorio. Mettendomi una mano sulla spalla mi dice: «Quel gol l’hai sbagliato perché pensavi già a come esultare». Con le pive nel sacco mi torna in mente tutto questo. Ringrazio mia figlia per avermi portato alla realtà ancora una volta. E così riprendiamo a goderci ancora l’alba insieme.

carlo.zeme@gmail.com

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