La schita: da alimento di ripiego a occasione da non perdere

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Tutto è nato da una foto su Facebook, poi è stato aperto un gruppo, è stato realizzato un sito internet e infine la schita dell’Oltrepò è entrata nell’Arca del Gusto di Slow Food. Promotrice della riscoperta è la giornalista e scrittrice Cinzia Montagna che ci spiega i legami fra tradizione e turismo integrato

Il mio lavoro è quello di curare e comunicare progetti di valorizzazione dei territori o dei loro prodotti. In molte aree, anni di ricerca che va oltre la memoria e che si dedica alla ricostruzione storica, ricerca compiuta da vari esperti, hanno portato all’individuazione di ricette della tradizione “di corte e di popolo”, per utilizzare una frase nota. Questo tipo di ricerca, che richiede l’attivazione di più competenze, è finalizzata alla traduzione in iniziative che vanno a connotare le “radici storiche” del presente gastronomico, con relativi risvolti di valorizzazione e promozione a vantaggio di un turismo integrato che veicoli un messaggio di autenticità ed esclusività.

In Oltrepò pavese, questo tipo di ricerca e di relativa codifica su base documentaria è rara e parziale, condotta in modo individuale da appassionati, in una dimensione asistematica: si è più propensi ad affidarsi al ricordo, certamente segnale di consuetudini, ma privo di riferimenti obiettivi. Questo aspetto emerge in modo rilevante quando si parla di schita, piatto semplice che la consuetudine ha tramandato in modo diffuso e che è transitato dalla sua dimensione domestica a una dimensione conviviale ampliata nelle feste popolari, arrivando però raramente a comparire come piatto di portata nei menu dei ristoranti. Partendo dal nome, la schita in certe località è chiamata “paradella”, per alcuni deve essere più croccante di una crepe, per altri come una crepe e c’è chi ha introdotto l’acqua gasata come ingrediente, chi un uovo e chi la cucina inserendo fette di cipolla o altro nel suo composto. Tutto questo si ricava dai ricordi personali («Mia nonna la faceva così»), che non sono una codifica documentaria, com’è evidente, ma un’evocazione e una suggestione emozionale. La schita ha un Ipse dixit e quell’Ipse dixit è la nonna. Il potere evocativo della schita, nella sua versione naturale o cosparsa di zucchero, è infatti fortissimo, come ha dimostrato il risultato ottenuto dal gruppo “La Schita dell’Oltrepò Pavese” che ho aperto su Facebook lo scorso aprile, dato il moto spontaneo suscitato da una foto di una schita da me cucinata per mia figlia Camilla.

La storia della “schita” o, meglio, quella di ricette a base di farina (non storicamente di grano, ma di cereali minori), acqua (naturale) e un pizzico di sale, dorata (non fritta) nello strutto (negli ultimi decenni nell’olio di oliva) è molto antica e, tralasciando prodotti similari già preparati da Egizi e Romani, vede il suo inizio nel Medioevo e precisamente quando vennero imposti dazi per l’utilizzo dei forni comuni nei quali si cuoceva il pane. Lievitato e pertanto più costoso e prezioso, il pane avrebbe richiesto un maggior impegno economico alle famiglie che iniziarono a cucinare in casa gli stessi ingredienti del pane, eccetto il lievito, per ottenerne un sostituto. Lo strutto, ottenuto dal maiale, si prestò in molte zone come condimento. La schita nasce quindi come ripiego, non come evoluzione dei gusti. Questo è un aspetto fondamentale: la schita non è nata perché il pane non piaceva più, ma perché il pane era troppo costoso da ottenere. I “ripieghi” in alimentazione raramente hanno una storia lineare. Il surrogato del caffè, tanto in uso nella prima metà del ’900, qualcuno se lo ricorda o se ne fa ancora uso diffuso? La risposta è no, eppure per vari decenni soltanto quello è stato usato nelle famiglie italiane per varie ragioni storiche e sociali.

Quello della schita è un filo rosso che attraversa i secoli e anche le culture mondiali – mutati nome e metodo di cottura – posizionandosi fra gli alimenti meno costosi, quindi alla portata di chi non poteva permettersi altro. Il suo essere povero non è dovuto soltanto alla semplicità degli ingredienti, ma perché era il cibo dei poveri. Questo è un “fatto”, anzi, meglio un “fenomeno” che, nella permanenza della schita attraverso i secoli, individua nell’Oltrepò pavese un territorio d’identità rurale (che non vuol dire grossolana, ma essenziale) in cui il “ripiego” è sopravvissuto malgrado l’affermazione di prodotti più elaborati e impegnativi. Il pane tipico dell’Oltrepò, la micca o miccone, nel suo processo di preparazione e conservazione (con una durata di una settimana) è a sua volta segnale che anche sul pane si applicavano principi di economia e funzionalità domestiche. L’ingresso della schita fra i prodotti dell’Arca del Gusto di Slow Food lo scorso novembre, reso possibile dall’attivazione al riguardo fatta da Teresio Nardi, fiduciario della condotta Slow Food dell’Oltrepò pavese, è un primo passo verso la riconoscibilità della schita come espressione tipica di un territorio che per ragioni geografiche e storiche è da sempre luogo di scambio e passaggio, influenzato anche in ambito gastronomico da territori altri. Ho attivato nelle scorse settimane il sito www.laschitadelloltrepopavese.it e mi sto muovendo, insieme a tante persone, per mantenere vivo l’interesse comunicativo su questa riscoperta che, per essere completa, dovrebbe a mio parere mobilitare su ricerche documentarie, pur nel rispetto dell’Ipse dixit affettivo. La schita è un formidabile passepartout per il territorio e per i suoi prodotti agroalimentari ed enologici, un’occasione da non perdere.

Cinzia Montagna

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