Don Tonino Bello ora è venerabile

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Figura carismatica di una “Chiesa del grembiule”, con la sua “convivialità delle differenze” aiutò centinaia di poveri. Un “vescovo-servo” che davanti al tabernacolo si faceva mangiare dalla gente

Don Tonino Bello è venerabile. L’annuncio è stato dato giovedì 25 novembre, durante l’ultima giornata dell’Assemblea generale straordinaria della Cei.

«La reazione è stata di enorme letizia da parte di tutti i vescovi presenti. – ha detto Mons. Domenico Cornacchia, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, la diocesi, dove era vescovo il sacerdote – Don Tonino è l’esempio di un pastore autentico, che dobbiamo tenere sempre presente».

«Per dieci anni – ha aggiunto – ha servito la comunità, i poveri e i sacerdoti a lui affidati».

L’iter per la sua beatificazione si è aperto a livello diocesano il 30 aprile 2010 con la prima seduta pubblica nella cattedrale di Molfetta. Nei giorni scorsi, Papa Francesco, incontrando il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il cardinale Marcello Semeraro, ha autorizzato la promulgazione del decreto che riconosce le virtù del Servo di Dio, «un amico, un compagno di viaggio, un pastore. Semplicemente un uomo», come è stato definito dal giornalista Riccardo Maccioni su “Avvenire”.

Monsignor Bello, per tutti don Tonino, è stato tante vite in una sola, unificate dall’amore a Dio e alla Chiesa, nel segno dell’attenzione privilegiata ai poveri, come insegna il Vangelo.

Di lui rimane famosa la definizione “Chiesa del grembiule”, intesa come comunità cristiana che sa chinarsi umilmente ai piedi degli uomini, senza tralasciare le nuove povertà.

«Stola e grembiule – diceva don Tonino – sono il dritto e il rovescio dello stesso paramento sacro: la stola ci fa ministri del Vangelo e il grembiule ci fa “lavapiedi del mondo”».

«Indossare il grembiule – ripeteva – significa accettare di essere fatti per gli altri. Il servizio implica solidarietà e responsabilità». La sua Chiesa è la stessa di quella che oggi Papa Francesco ha definito “ospedale da campo”, capace cioè di portare di persona Cristo a chi ha bisogno.

«Accoglietemi come fratello e amico, oltre che come padre e Pastore. Liberatemi da tutto ciò che può ingombrare la mia povertà»: queste le parole con cui si presentò nel 1982 alla Chiesa di Molfetta. Da quel momento aprì la sua residenza episcopale a sfrattati ed extracomunitari, instaurando la cosiddetta “convivialità delle differenze” ossia «il confrontarsi e completarsi con chi è diverso senza mai sfuggire alla logica della pace».

Nel 1985 subentrò al vescovo di Ivrea Mons. Luigi Bettazzi, alla guida del movimento “Pax Christi” e subito si impegnò a difesa della pace. Per lui la pace era «convivialità, è mangiare il pane insieme con gli altri, senza separarsi, mettersi a tavola tra persone diverse, dove l’altro è un volto da scoprire, da contemplare, da accarezzare». Chi l’ha conosciuto racconta che restava colpito soprattutto dalla sua semplicità, dalla volontà di condividere l’esistenza comune della gente “normale”.

Una frase che risuonava spesso sulle labbra di don Tonino era: «Coraggio, non temere». «Amiamo il mondo. – ripeteva – Vogliamogli bene. Prendiamolo sotto braccio. Non opponiamogli sempre di fronte i rigori della legge se non li abbiamo temperati prima con dosi di tenerezza».

Gli anni Novanta iniziarono con la Guerra del Golfo e l’arrivo di migliaia di albanesi in Puglia. Don Tonino, nel Natale del 1992, già colpito dal tumore, insieme a circa cinquecento volontari, si recò a Sarajaevo, la capitale della Bosnia, assediata dalle milizie serbe. Alla vigilia del viaggio scriveva: «Il cammino verso Sarajevo di un esercito disarmato di operatori di pace, ha un celebre precedente. L’irruzione di Francesco d’Assisi nel campo militare di Damietta, in Palestina, presidiato dal sultano Melik el Kamil. Nel giugno del 1219, la flotta dei crociati partì da Ancona verso la Palestina, alla conquista dei Luoghi Santi. Su una nave salì anche Francesco, col desiderio di frapporsi, disarmato, tra i Saraceni e i crociati. Un’autentica rottura della logica corrente, che sconcertò positivamente il sultano e lo Stato generale del suo esercito. Il cammino verso Sarajevo, che partirà anch’esso da Ancona, vuole ripetere lo stesso gesto di Francesco. Porsi come richiamo alla tragicità della violenza che non potrà mai risolvere i problemi dei popoli». Il suo impegno per la pace proseguì fin negli ultimi giorni di vita con un ultimo accorato appello a tutti i responsabili della guerra nella ex Jugoslavia: «A tutti diciamo: deponete le armi, sottraetevi all’oppressione dei mercanti della guerra… Dove vorreste che, nel libro della storia dell’umanità, negli anni futuri, il vostro nome venisse letto: nel libro della vita o nel libro della morte? Purtroppo quello che si sta scrivendo è il libro della morte. E voi, responsabili dei Paesi più ricchi e potenti del mondo, dagli Stati Uniti d’America ai Paesi dell’Europa, non sottraetevi alla responsabilità di influire in modo determinante, non con le armi che consolidano la vostra potenza e le vostre economie, ma con efficaci mezzi di pressione e di dissuasione, per fermare questa carneficina, che disonora insieme chi la compie e chi la tollera».

La sua anima sensibile e profonda ebbe modo di raccontarsi in articoli giornalistici di forte impatto sociale, in preghiere nate dalla vita quotidiana e in poesie di struggente dolcezza spesso dedicate alla Vergine Maria.

Nel 2018, in occasione del 25° anniversario della sua morte, Papa Francesco si è recato sulla tomba del sacerdote e nei luoghi dove era vissuto. Nell’omelia aveva ricordato che «don Tonino aveva una salutare allergia verso i titoli e gli onori che si esprimeva nel suo coraggio di liberarsi di quel che può ricordare i segni del potere per dare spazio al potere dei segni».

Parlando alla diocesi di Molfetta il Pontefice aveva sottolineato che «era un Vescovo-servo, un Pastore fattosi popolo, che davanti al tabernacolo imparava a farsi mangiare dalla gente».

«Don Tonino – come afferma Maccioni – è stato capace di legare insieme verità e dolcezza e al pugno chiuso preferiva la mano aperta, a suo modo segno delicato della rinuncia al proprio orgoglio».

Daniela Catalano

La sua vita con il Signore

Antonio Bello nasce ad Alessano, in provincia di Lecce, il 18 marzo 1935 da Tommaso, maresciallo dei carabinieri e da Maria Imperato, donna semplice e di grande fede. Entra giovanissimo nel Seminario Vescovile di Ugento. Prosegue la sua formazione nel Pontificio Seminario Regionale di Molfetta prima e presso il Seminario O.N.A.R.M.O (Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai) di Bologna poi, dove vive un’esperienza profonda a contatto con il mondo del lavoro e i lavoratori. A Bologna dalle mani del Card. Giacomo Lercaro il giovane Bello riceve gli ordini minori e l’ordinazione diaconale. Mons. Ruotolo lo ordina presbitero l’8 dicembre 1957 nella sua Alessano. L’anno successivo è nominato vicerettore nel Seminario Minore di Ugento.

Consegue la licenza in Sacra Teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale a Venegono Inferiore e nel 1965 discute presso la Pontificia Università Lateranense la tesi dottorale intitolata “I congressi eucaristici e i loro significati teologici e pastorali”.

Nel frattempo, gli era stata affidata la formazione dei giovani presso il seminario diocesano di Ugento, del quale fu per 22 anni vice rettore. Dal 1969 fu anche assistente dell’Azione Cattolica e quindi vicario episcopale per la pastorale diocesana. Nel 1978 don Tonino diviene amministratore parrocchiale presso il S. Cuore di Ugento e dopo meno di un anno mons. Mincuzzi lo nomina parroco nella chiesa Madre di Tricase. Era terziario francescano.

Papa Giovanni Paolo II lo elegge vescovo e il 30 ottobre 1982 è consacrato nella diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi: è il primo pastore della nuova diocesi che accoglieva anche Ruvo. Grande è il suo impegno a favore degli ultimi. Lotta accanto ai disoccupati delle Acciaierie Pugliesi di Giovinazzo, apre la sua casa agli sfrattati e nel 1985 a Ruvo fonda la C.A.S.A. (Comunità di Accoglienza e Solidarietà Apulia) per il recupero di tossicodipendenti.

Nel 1985 è indicato dalla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana a succedere a monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nel ruolo di guida di “Pax Christi”, il movimento cattolico internazionale per la pace. La malattia lo coglie in maniera improvvisa, ma non lo scoraggia dal prendere parte nel dicembre del 1992 alla “Marcia dei 500” pacifisti che giungono a Sarajevo, città sotto assedio. Muore a causa di un tumore allo stomaco il 20 aprile 1993 a Molfetta, lasciando una grande eredità spirituale. Il suo corpo è sepolto nel cimitero di Alessano, dove tuttora riposa.

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