Quali regole e principi di fondo?
Fine vita. Nell’ottava puntata del nostro approfondimento il contributo prestigioso del costituzionalista ci mette in guardia dal rischio del relativismo e dell’assolutismo nell’affrontare un tema che coinvolge delicati profili etici
DI RENATO BALDUZZI
In tema di fine vita, come accade a proposito di ogni argomento che coinvolge delicati profili etici, sociali, politici e giuridici, dobbiamo partire sempre dai principi di fondo, perché soltanto così è possibile, in una società pluralista, condividere soluzioni che evitino i due rischi opposti: quello di un relativismo fine a se stesso, che confonde tra bisogni, desideri e diritti, e finisce, ove c’è dissenso, nel validare tutte le posizioni; e quello di un assolutismo ugualmente fine a se stesso, in cui ciascuna posizione ripropone in modo solipsistico la propria “verità”. L’approccio pluralista, invece, consiste nel ricercare la soluzione meno lontana rispetto ai valori comuni (plurali anch’essi, ma comuni) sui quali possiamo concordare.
Quali sono i principi di fondo? Sotto il profilo giuridico-costituzionale ed etico-culturale, va riaffermato, in primo luogo, il valore della vita e della sua dignità, non soltanto rispetto a un preteso e inesistente “diritto a morire”, ma anche rispetto a un generico diritto all’autodeterminazione individuale. Dall’art. 2 della Costituzione discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, e non quello di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Sono, queste, parole tratte dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Ugualmente, va respinta una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignori le condizioni concrete di disagio o di abbandono in cui spesso vengono a maturare le decisioni di suicidio e va riproposto con determinazione il compito della Repubblica di realizzare politiche pubbliche volte a sostenere chi vive tali situazioni di fragilità. Da questa premessa consegue anche che il riferimento alla dignità come soggettivamente intesa non potrà condurre all’opposizione tra la dignità “personale” e la vita “personale”, finendo per relativizzare la stessa nozione di “vita” attraverso l’impiego della locuzione “vita degna”.
Un secondo principio di fondo sta nella netta distinzione tra il riconoscimento del diritto a rifiutare trattamenti sanitari e l’ammissibilità di un aiuto a morire attraverso un trattamento sanitario letale: una cosa è “lasciar morire”, evitando accanimento terapeutico, altra cosa è “far morire” o aiutare a farlo. Se si condividono questi due principi di fondo, è più agevole la lettura della situazione normativa attuale. La Corte costituzionale ha introdotto nell’ordinamento italiano una causa di non punibilità di chi, a certe condizioni, agevola l’esecuzione del proposito suicidario altrui, ma ha escluso che esista un diritto soggettivo all’aiuto al suicidio (rimanendo affidata alla coscienza del singolo medico la scelta se prestarsi o no alla richiesta del malato).
La “circoscritta area di non punibilità”, dice la Corte, riguarda la posizione di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente (è il ben noto dispositivo della sent. n. 242 del 2019).
Si potrebbe discutere se la Corte avesse davvero il potere di oltrepassare un confine che il Parlamento, con la legge n. 219 del 2017, nell’esercizio della sua discrezionalità politica, aveva deciso di non oltrepassare, e se la tecnica usata dal giudice costituzionale sia stata rispettosa dell’equilibrio tra i poteri: discussione, certo, interessante per i costituzionalisti, ma, nel caso nostro, sorpassata dagli eventi.
La domanda cruciale invece concerne gli eventuali e ulteriori spazi che residuano in capo al legislatore. Può la legge statale affidare al Ssn, oltre ai doveri di verifica e di garanzia, anche compiti di organizzazione per l’erogazione di prestazioni e trattamenti di suicidio medicalmente assistito? In senso contrario, vanno le considerazioni desunte dalle decisioni della Corte costituzionale e dal fatto che il Ssn ha il dovere di curare e di accompagnare il malato assicurandogli tutte le cure necessarie, ivi compresa la sedazione palliativa profonda.
Una risposta più sfumata deriva dalla considerazione circa il rischio di affidare tali pratiche al mercato privato del suicidio assistito, senza o con minori possibilità di controllo.
C’è spazio per leggi o provvedimenti regionali? Essendo quella sanitaria una competenza concorrente tra lo Stato e le Regioni italiane, compete a queste ultime – entro la cornice dei principi fondamentali statali – l’organizzazione delle procedure volte a verificare l’esistenza delle condizioni poste dalla sentenza n. 242 del 2019. Se si volesse andare oltre, rientreremmo nella materia dell’ordinamento civile e penale, dunque fuori dalla competenza regionale. E ancora: la valutazione etica circa la sussistenza delle condizioni richieste dalla Corte spetta a un comitato etico nazionale o a commissioni regionali e locali?
Sono tutte domande la cui risposta chiede di rifuggire dalle contrapposizioni politicoideologiche, e di valorizzare invece il rapporto diretto medico-paziente, che coinvolga le famiglie, il solo che può consentire un vero discernimento che eviti, da un lato, l’accanimento terapeutico e, dall’altro, derive eutanasiche.
L’auspicio è che il Parlamento riesca in questo non facile compito, mettendo ai margini quanti vorrebbero strumentalizzare questa discussione e invece ricercando pazientemente soluzioni le più largamente condivise.