«Non possiamo fermare la morte, ma riscaldare la vita fino all’ultimo respiro»
Fine vita. In questa nona puntata del nostro approfondimento, l’ultima, torniamo a parlare di cure palliative. Lo facciamo dando la parola a medici, infermieri, operatori e parenti di pazienti, che hanno raccontato la loro esperienza in un incontro organizzato dalla Fondazione Conte Franco Cella di Rivara di Broni
DI MARCO REZZANI
È una delle canzoni più belle di Franco Battiato. Si intitola La cura ed è stata la colonna sonora, il leit motiv, dell’evento “e avrò cura di te” che si è svolto sabato 18 ottobre nel Ridotto del teatro “Carbonetti” di Broni, promosso dalla Fondazione Conte Franco Cella di Rivara di Broni, in collaborazione con il Comune, per informare e sensibilizzare la popolazione sul tema delle cure palliative domiciliari, uno dei servizi all’avanguardia erogati dall’ente. La sala era gremita: medici di famiglia, tutta l’equipe delle cure palliative domiciliari della Fondazione (medici, infermieri, fisioterapisti, operatori socio assistenziali), famigliari degli assistiti, cittadini. L’incontro, moderato dalla care manager del servizio Michela Draghi, è stato introdotto dal saluto del sindaco di Broni Antonio Riviezzi che ha posto in evidenza l’alto profilo dell’attività dell’ente e dall’intervento introduttivo del presidente della Fondazione Cella Luigi Ghisleri. Sono seguite le relazioni dei medici Salvatore Romeo e Monica Marano e la proiezione di alcuni video realizzati dal Circolo Fotografico Oltrepò in cui venivano presentate la squadra e le strutture della Fondazione. Molto commoventi le testimonianze audio di alcuni parenti di pazienti seguiti dai professionisti della Rsa. Si è trattato di un’occasione molto importante per fare chiarezza su un servizio che – come più volte hanno fatto notare i relatori – contribuisce a migliorare la qualità della vita degli ammalati in una fase delicata della loro esistenza; a sfatare un’opinione molto diffusa che afferma che le cure palliative non sono altro che una “scorciatoia” per arrivare prima alla morte. Le cure palliative sono un approccio olistico multidisciplinare che si pone l’obiettivo del miglioramento della qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza fisica, psicologica e spirituale, grazie a una valutazione accurata dell’ammalato e un conseguente trattamento tempestivo dei sintomi. Si tratta di un servizio sempre più richiesto. Basti pensare che nel 2020 i pazienti curati a domicilio dalla struttura bronese erano 60, nel 2024 sono stati ben 150 e i numeri sono in costante aumento. Significativi anche i chilometri percorsi dal personale della Fondazione Cella, in un territorio che comprende buona parte dell’Oltrepò pavese: 12.728 km al mese per un totale annuo di quasi 153.000 km. A livello europeo l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima in 560 persone adulte su 100.000 quelle che hanno bisogno di cure palliative, di cui il 60% con patologie non oncologiche. Secondo i dati dell’Oms, solo il 14% dei pazienti che ne avrebbero necessità a livello globale le riceve. «Dietro a questi numeri ci sono volti, famiglie, storie». Lo ha affermato il presidente Ghisleri e ha chiarito che «il compito delle cure palliative è uno solo: accompagnare la persona, proteggendone la dignità e sostenendo chi le sta accanto, cercando di alleviare la sofferenza, migliorare la qualità della vita, dare spazio alla relazione, alla presenza, al sollievo: rassicurando, per togliere il pensiero ossessivo del male». Un viaggio dello spirito, prima di tutto, durante il quale «chi si prende cura scopre qualcosa di sorprendente: che la fragilità dell’altro può diventare una sorgente di forza, che nel donare attenzione e tempo si riceve in cambio energia vera, linfa di umanità». «La cura – ha detto Ghisleri – è un cammino condiviso: si esce un po’ da sé, per incontrare l’altro nel suo bisogno attraverso gesti di attenzione che una persona in ansia, sofferente, magari bloccata nel proprio letto, coglie con una sensibilità e una forza per certi versi sconosciute. Pensiamo a un ipovedente a quanto acuisca gli altri sensi per sopperire al deficit visivo: lo stesso accade al sofferente e alla sua sensibilità. Gli operatori che si avvicendano al suo letto sanno che ogni loro movimento di ciglia, ogni loro silenzio o esitazione saranno colti e interpretati da chi ormai orienta tutto il proprio essere alla propria sofferenza e al proprio destino». Ghisleri ha ricordato il patrono delle cure palliative, san Martino di Tours, che, come sappiamo, tornando da una battaglia, vide un uomo tremare dal freddo. Senza esitazione tagliò in due il suo mantello e ne donò metà al viandante. «Quel gesto salvò una vita e portò calore nel cuore di entrambi. La mattina dopo il mantello di Martino era di nuovo intero: un segno che chi si dona con misura e amore non si impoverisce, ma si rigenera. È questa la stessa logica della cura: non possiamo fermare la morte, ma possiamo riscaldare la vita fino all’ultimo respiro». Il contatto è essenziale affinché la cura abbia pieno senso ed efficacia: «Le cure palliative non hanno bisogno di tanta tecnologia, ma di tanto contatto umano. Servono competenze forti, sapere tecnico e sensibilità clinica. Ma esistono altre cure che non sono mediche: le cure del cuore, dell’ascolto, dell’affetto o della semplice cortesia personale. Quella parola, quella carezza, quella mano sfiorata per un malato è un dono inestimabile. Quel secondo di attenzione, di riguardo, di assistenza, ha una profondità infinita, è un briciolo di eternità. Medici, infermieri, operatori, fisioterapisti, psicologi, educatori, operatori socio assistenziali, tutti uniti in un’équipe che non si limita a “fare”, ma “si prende cura”. Chi lava, veste, nutre, mobilizza il paziente entra in una dimensione di intimità e fiducia profonda: lì, nel gesto quotidiano, c’è la vera essenza della cura». Toccante l’ascolto delle testimonianze che, in forma anonima, hanno reso i famigliari di alcuni pazienti: «mio padre vi adorava, non aspettava altro che il vostro arrivo», «ho sperimentato la professionalità, la gentilezza, la cortesia, l’umanità di tutto il personale», «avere al fianco uomini e donne competenti ci ha rassicurati e aiutato ad andare avanti giorno per giorno», «avete reso mio padre una persona, l’avete ricoperta di dignità fino alla fine». Un incontro in cui si è parlato più di vita che di morte; di fatica, ma anche di delicatezza e della bellezza di porre al centro l’essere umano.

