I 30 anni prima dello storico evento che cambiò la Chiesa
60 anni dal Concilio Vaticano II. L’8 dicembre del 1965 Paolo VI chiudeva l’assise che era stata voluta da Giovanni XXIII. Ricordiamo l’importante anniversario partendo dalla figura di Mons. Aldo Del Monte, a margine del recente convegno diocesano a lui dedicato
DI DON MAURIZIO CERIANI
Mons. Aldo Del Monte fu certamente uomo del Concilio Vaticano II per molti aspetti: lo anticipò desiderandolo ardentemente, lo visse intensamente, lo applicò con serena consapevolezza, senza farsi condizionare dalle opposte ideologie che spesso lo travisano e lo tradiscono. Più volte ribadì le tre fedeltà del suo ministero sacerdotale ed episcopale: alla Chiesa, al Concilio, alla storia. Ed è proprio questa terza fedeltà che desidero con lui condividere in questa sintetica presentazione della situazione storico-teologica in cui il giovane don Aldo si formò e visse la prima parte del suo sacerdozio, in quegli anni che precedettero e prepararono il Vaticano II.
La Diocesi di Tortona nel trentennio che precedette il Concilio
Alla vigilia della conclusione dell’assise conciliare, nell’anno pastorale 1964/65, la Diocesi di Tortona si presentava come un’imponente struttura ecclesiale. Dall’annuario di allora, secondo anno del tormentato episcopato di Mons. Francesco Rossi, desumiamo i seguenti dati: 444 sacerdoti diocesani operanti in Diocesi, 20 operanti fuori Diocesi, per di più cappellani militari e dei migranti oppure impegnati in servizi a Roma alla Chiesa universale (non c’era ancora l’istituto dei sacerdoti Fidei Donum), 114 sacerdoti religiosi, 136 case di suore con più di un migliaio di religiose impegnate in molteplici servizi assistenziali e pastorali, un esercito di laici inquadrati nei rami dell’Azione Cattolica, capillarmente presente in ogni realtà parrocchiale. Eppure dentro questa, che poteva sembrare – pastoralmente parlando – una “perfetta macchina da guerra”, si celavano forti problematiche, disagi, confusioni, contrasti, sofferenze, che di lì a poco sarebbero esplosi in tutta la loro drammaticità. Nel precedente anno 1963, al 3 di marzo, era mancato a 84 anni (non era ancora valida la regola del limite dei 75 anni) l’arcivescovo-vescovo Mons. Egisto Domenico Melchiori, che aveva retto la Diocesi dal 1935, per 28 lunghi anni, segnati dai profondi sconvolgimenti che tutti ben conosciamo. L’episcopato di Mons. Melchiori, ancora tutto da studiare in modo sereno e oggettivo, fu complesso, come il periodo storico in cui si svolse, non privo di contraddizioni, fortemente accentrato sulla figura episcopale ma nemmeno scevro di sorprendenti punte di modernità. Di fatto con lui si interruppe, in modo brusco e repentino, quello slancio culturale, pastorale e di apertura al sociale, che aveva contraddistinto la Chiesa tortonese negli episcopati Bandi e Capelli, facendola diventare un esempio nazionale di incarnazione delle istanze della Rerum Novarum. Diverse figure eminenti del clero vennero mortificate e messe ai margini, preferendo una gestione centralizzata e piramidale della Diocesi che diede comunque apprezzabili frutti in termini organizzativi. Tuttavia nel pensiero dell’arcivescovo-vescovo non mancò mai una profonda riflessione sulle persone e sui fatti della contemporaneità; nei suggerimenti richiesti dalla commissione preparatoria del Concilio, leggiamo che l’anziano Melchiori, memore della tragedia vissuta da molte donne delle nostre valli, stuprate dalle milizie turkmene, i famigerati “mongoli”, fu uno dei pochissimi vescovi italiani che mise a tema le problematiche che sarebbero confluite nella Humanae Vitae.
Il ventennio fascista
È risaputo che, nella sua prima fase, il fascismo ebbe un diffuso consenso popolare. Uguale consenso ebbe allora anche in ambito ecclesiale, dove certamente non mancarono gli sguardi lungimiranti sui pericoli insiti nel regime, ma prevalsero le istanze legate al felice esito del Concordato del 1929, la cosiddetta “Conciliazione”, che ridava alla Chiesa cattolica un ruolo importante nella società italiana. Forse noi abbiamo dimenticato il dramma vissuto dalla Chiesa nei settantacinque anni che vanno dalle Leggi Siccardi del 1854 al concordato del 1929, soprattutto in quel Nord-Ovest sabaudo dove la Chiesa era la vera e propria impalcatura sociale dello Stato. Nelle corti europee si amava dire che Casa Savoia avesse trasformato il Regno di Sardegna in un convento e in una caserma, e in parte era vero. Il repentino passaggio all’estromissione della Chiesa dalla vita dello Stato unitario, come pure l’auto esclusione della Chiesa con il Non Expedit dopo il 20 settembre 1870, lacerarono non poche coscienze e l’intera società italiana. Nel concordato la maggioranza del mondo cattolico vide un’autentica Riconciliazione, che portava pace e gioia ed era foriera di una rinnovata e incisiva presenza cristiana nella nazione. Il grazioso santuario della Madonna della Guardia in Pagliaro Inferiore, frazione di Rocchetta Ligure, testimonia come fu vissuto dal nostro clero e dalla nostra gente l’evento del 1929: si sentì la necessità di dipingere in controfacciata lo stemma pontificio e quello sabaudo uniti da un nastro che celebra la Riconciliazione con le parole latine del Salmo 85: “justitia et pax osculate sunt” (“la giustizia e la pace si sono baciate”). Inoltre, soprattutto nelle realtà rurali, si percepì il fascismo come un argine alle infiltrazioni del socialismo ateo che, soprattutto nella limitrofa Lomellina, durante il cosiddetto Biennio Rosso, ebbe una certa presa sulle popolazioni contadine. Tuttavia fu un momento fugace perché il fascismo tentò di ostacolare la Chiesa e di emarginarla nuovamente dal contesto sociale; basti pensare alla persecuzione contro l’Azione Cattolica, che riprese violenta proprio all’indomani del Concordato e portò nel 1931 Pio XI a pubblicare l’Enciclica Non Abbiamo Bisogno, scritta in italiano contro la pesante ingerenza fascista. La crisi del 1931 venne rapidamente superata con un compromesso, sia perché la Chiesa capì che per il fascismo era molto difficile, se non impossibile, penetrare gli ambienti dell’Azione Cattolica, sia perché al regime non conveniva avventurarsi in uno scontro diretto con la Chiesa. Anche se era lontanissima dall’Azione Cattolica e dalla gerarchia ecclesiastica l’idea di porsi a capo di un movimento antifascista, ne uscì uno spazio autonomo, sgombro dai condizionamenti ideologici e politici del regime, come la Fuci di Montini e Righetti aveva auspicato. Servì, anche in Diocesi, per preparare e mantenere in piedi i quadri di un laicato organizzato, non compromesso con il regime e capace di far sentire il proprio peso alla caduta del fascismo. Gli anni successivi, fino alle leggi razziali del 1938, registrarono un nuovo avvicinamento tra Chiesa e fascismo, contrassegnato dall’idea di poter convertire il regime. Questo pensiero può sembrare oggi ingenuo, ma ebbe importanti esponenti come Padre Gemelli e Francesco Olgiati e in generale gli ambienti dell’Università Cattolica. In quei frangenti il vescovo Melchiori mantenne sempre un atteggiamento dettato dalla prudenza e dal pragmatismo, per assicurare i necessari spazi dell’azione pastorale.
(1^ puntata – Segue)

