Luoghi di accoglienza in Oltrepò pavese
Giubileo 2025. Continuando a seguire il viaggio dei pellegrini medievali verso Roma o verso Santiago di Compostela, facciamo tappa oggi negli Hospitales di Montebello, Casteggio, Portalbera, Stradella, Arena Po…
DI DON MAURIZIO CERIANI
L’ Oltrepò pavese è oggi percorso dalla strada statale 10 “Padana Inferiore”, che da Tortona a Piacenza segue fedelmente il tracciato dell’antica via consolare Postumia. Nei centri abitati di Tortona, Pontecurone, Voghera, Casteggio, Santa Giuletta, Redavalle, Broni, Stradella assume curiosamente il nome di “via Emilia”, forse perché quel tratto della Postumia univa l’Aemilia classica e l’Aemilia Scauri. Tuttavia nei secoli scorsi era denominata “Via Romea” e tutt’oggi in alcune località rimangono toponimi che ricordano l’antica denominazione. Quel tracciato infatti era percorso da frotte di pellegrini in viaggio verso Roma o verso Santiago di Compostela e su di esso si aprivano non pochi luoghi di accoglienza.
Gli Hospitales del Casteggiano
La più antica notizia di un luogo di accoglienza alle porte di Casteggio riguarda Montebello, dove il 2 febbraio 1256 frate Rubaldo o Roberto de Comite fondò nel borgo l’Hospitale destinato ai religiosi e ai pellegrini “visitantium limina beatorum Petri et Jacobi”. L’atto di fondazione testimonia come l’Oltrepò fosse attraversato in entrambi i sensi sia dal pellegrinaggio romeo sia da quello compostelano. L’Hospitale di Montebello fu posto sotto il titolo di Santa Caterina e il patronato del Collegio dei Notai di Pavia che ne doveva curare l’amministrazione, attraverso la donazione di edifici e terreni nel borgo da parte della famiglia De Comite. L’importanza dell’ospizio di Montebello e la sua prestigiosa amministrazione portò nel tempo alla costruzione nel circondario di numerose ville signorili di campagna, a opera della nobiltà e dell’alta borghesia pavese. A Casteggio invece funzionava un luogo di accoglienza presso la chiesa di San Sebastiano, allora alle porte del borgo; era gestito da una confraternita laicale intitolata alla SS. Trinità, popolarmente chiamata “Congregazione dei Battuti”, per l’usanza di autoflagellarsi durante le processioni penitenziali della quaresima. Fuori Casteggio, in direzione Piacenza, è documentata una “mansio” prima templare e poi giovannita col nome di Santa Maria del Verzario, nella località di Verzate. È menzionata già nel 1149, quando il cavaliere templare Dalmazio del Verzario donò all’ordine i suoi beni, al fine di edificare il luogo di accoglienza per i pellegrini in prossimità del ponte sul torrente Rile. Infine giova sottolineare che tanto Corvino San Quirico quanto Santa Giuletta, borghi adagiati sull’antico tracciato della Romea, ricordano nei loro nomi il Martire bambino e la madre, veneratissimi nel medioevo. Il loro culto fu introdotto in Europa da Sant’Amatore vescovo di Auxerre (morto nel 418), che avrebbe portato le loro reliquie da Antiochia a Marsiglia; da lì poi vennero traslate a Roma da Papa Vigilio (537-555), forse proprio transitando per il nostro Oltrepò lungo l’antica Postumia.
L’Hospitale di Santa Maria in Portalbera
L’Oltrepò orientale entrò a far parte della Diocesi di Tortona soltanto nel 1817, dopo la revisione dei confini ecclesiastici voluta dal Congresso di Vienna, in modo che coincidessero con i confini di stato. Precedentemente era suddiviso tra le Diocesi di Pavia e di Piacenza, sia pur senza continuità territoriale. Stradella apparteneva all’episcopato pavese e il vescovo vi esercitava anche il potere feudale, come pure sulla vicina Portalbera, che fu per secoli importante guado e porto fluviale sul Po. Abbiamo notizia di un hospitale per pellegrini edificato a Portalbera per volontà del vescovo di Pavia Guido II nel 1114, dedicato a Santa Maria. Guido, cha amava soggiornare spesso nel borgo oltrepadano, volle unire Pavia al tracciato della Romea ai piedi della rocca di Stradella, attraverso il guado di Portalbera, facendo sì che il suo porto fluviale divenisse anche un comodo approdo per chi, scegliendo la via d’acqua del Po, avrebbe poi proseguito verso Roma. Pavia era già una tappa ambita nei percorsi dei pellegrini a motivo delle spoglie di sant’Agostino, ivi traslate da Re Liutrando nel 723/24; unirla a un’importante arteria di pellegrinaggio romano e giacobeo fu certamente un’operazione vantaggiosa. L’importanza che questo luogo d’accoglienza assunse è testimoniata dal “Consorzio di Prelati” che il vescovo Guido riuscì a organizzare. Quattro cardinali, cioè Gregorio di Sant’Angelo, Giovanni Cremasco di San Crisogono, Pietro di Sant’Eufemia e Gregorio di San Lorenzo in Lucina, insieme a tre arcivescovi, cioè Stefano e Pietro di Artatax in Armenia e Balduino di Dola, invitavano a sostenere con elemosine l’ospizio di Portalbera in cambio di generose indulgenze. A essi si unirono quindici vescovi, tra cui quelli di Aosta, Asti, Colonia, Cremona, Novara, Parma, Piacenza, Torino e Vercelli, e otto abati, tra cui ricordiamo quelli di Breme, Fruttaria e San Michele della Chiusa, insieme al potente abate di Cluny. Una rete internazionale veniva così a sostenere l’hospitale di Portalbera, tanto nella sua edificazione quanto successivamente nel suo funzionamento, implementando un’importante via di pellegrinaggio transalpino. La ricompensa spirituale garantita a chi lo avesse sostenuto era tale da far invidia alle mete stesse del pellegrinaggio: “l’indulgenza della terza parte dé peccati mortali e della metà dé veniali a chiunque confessato soccorreva tal opera con l’elemosina”.
L’“Hospitale Guidonis Fabbri” di Stradella
A Stradella, dove la Romea accoglieva il nuovo tracciato proveniente da Pavia, sempre sotto l’autorità del vescovo feudatario, i pellegrini potevano trovare alloggio presso l’“Hospitale Guidonis Fabbri”. In un documento del 1147 è ubicato “prope aquam que dicitur de Versa in strata Romea”, cioè in uscita dal borgo verso Piacenza nei pressi del torrente Versa, dove giungeva la strada di Portalbera. Gli storici individuano nel tratto stradellino della Romea due tracciati, uno più antico che transitava ai margini del borgo coincidente a pieno con la romana Postumia, e uno più recente che attraversava il borgo stesso; quest’ultimo tracciato sarà imposto nel 1220 “per la sicurezza dei pellegrini” dal vescovo di Pavia Folco agli Stradellini, che in cambio ottennero la concessione del mercato settimanale del martedì, tuttora in uso. Guido Fabbro, probabile fondatore dell’hospitale, resta tuttavia un personaggio sconosciuto, anche se la sua intitolazione permane in diversi documenti dei secoli XII, XIII e XIV. In un documento del 1485 è infine testimoniato il passaggio di intitolazione dell’ospizio da Guido Fabbro a Sant’Antonio Abate: “l’hospitale di Sant’Antonio nominato anticamente di Guidone Fabbro”. Nel XVI secolo l’hospitale cambia sede e nel 1573 compaiono entrambi: “il vetus” e il “novum”; quest’ultimo è affidato alla cura dei confratelli della Beata Vergine della Misericordia, istituita presso l’omonimo oratorio.
Un saluzzese fonda ad Arena Po
Arena Po, insieme a Broni, era invece di pertinenza dell’episcopato piacentino. Qui sorgeva l’hospitale di “San Giacomo di Galizia”, anch’esso affidato alla gestione del Collegio dei Notai di Pavia. La sua fondazione risale al 25 giugno 1401, a opera di Ansermo degli Ansermi, figlio di Manfredo, suddito del Marchese di Saluzzo, che volle erigere un “hospitale sub vocabolo Sancti Jacobi appellati de Compostela”. L’atto fondativo è molto dettagliato e ci offre importanti testimonianze sulla natura e le finalità della stessa istituzione. Essa ha un obbligo di accoglienza verso i “pauperes Christi de dicto loco Arene”, anche in caso di infermità, cioè si pone come una sorta di ospizio per i poveri. Inoltre è al servizio dei pellegrini, sia laici sia religiosi, adeguatamente ospitati in ambienti distinti: “fratres et religiosi et omnes presbiteri et monaci in Christo militantes”. Il fondatore si preoccupò anche che ci fosse tutto l’arredo liturgico necessario affinché i sacerdoti potessero celebrare la Messa. L’hospitale di Arena contava complessivamente diciannove posti letto su due piani; al primo piano vi erano otto letti in “cameris superioribus”, quattro per i religiosi appartenenti a ordini mendicanti e quattro a monaci, preti e “nobiles pauperes”, cioè nobili senza molte possibilità economiche. Al piano terra i rimanenti undici, di cui otto riservati agli uomini e tre alle donne, dal momento che le pellegrine erano in numero decisamente inferiore.