Che tipo di assistenza medica vogliamo costruire?

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Fine vita. In questa quarta puntata della nostra inchiesta parliamo del caso di Laura Santi, delle reazioni che ha suscitato e ospitiamo la riflessione della dottoressa Mirella Arlandi del Meic di Tortona. In attesa di riprendere il focus a settembre

DI MARCO REZZANI

Mentre continua il nostro “focus” sui temi del fine vita, non possiamo trascurare la cronaca che ci riporta al 21 luglio quando, nella sua casa di Perugia, è morta la giornalista Laura Santi, 50 anni, affetta da una forma avanzata e progressiva di sclerosi multipla. La sua esistenza terrena si è chiusa con l’autosomministrazione di un farmaco letale, messole a disposizione dalla Azienda sanitaria di riferimento, al termine di un lungo iter giudiziario durato oltre due anni e mezzo. Al suo fianco il marito Stefano. A darne l’annuncio ci ha pensato l’Associazione “Luca Coscioni” che, come per altri casi analoghi, ha sostenuto la donna nel percorso per ottenere l’accesso al suicidio medicalmente assistito che, giova ricordarlo, in Italia rimane un reato che la Corte Costituzionale ha dichiarato non punibile solo in casi eccezionali e ben delimitati: capacità piena del paziente, patologia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Non si tratta di un diritto generalizzato, né di un servizio sanitario obbligatorio. Per la giornalista di Perugia si è arrivati al punto in cui la struttura pubblica ha fornito farmaco e strumentazioni e il personale sanitario si è attivato su base volontaria per assistere alla procedura. Il caso di Laura Santi genera sofferenza e solleva ulteriori domande su che tipo di assistenza medica vogliamo costruire nel nostro Paese. Da alcune settimane questo giornale, sulla scia del ditive a tutti. Il dolore, pur devastante, non può mai essere il criterio per stabilire chi debba vivere o meno. segno di legge sul fine vita e sulle cure palliative proposto dalla maggioranza di governo e sulla discussione legata ad alcune leggi regionali in materia, prima fra tutte quella della Toscana, ha avviato un dibattito sul tema delle cure palliative e sul fine vita. Chi soffre necessita di cure, non di sistemi per accorciare la vita e la vera sfida – ripetono i palliativisti – è accompagnarlo fino alla fine con dignità. È quindi necessaria una rete capillare che possa assicurare l’accesso alle cure pallia«La morte si accoglie ma non si somministra». Sono le parole della Presidente del Movimento per la vita (Mpv) Marina Casini al Sir, la quale aggiunge che «nessuna legge che approvi e favorisca in qualche modo il suicidio assistito può considerarsi giusta». «Ho provato tristezza e ho pregato per lei – continua Casini – per i suoi cari e per chi l’ha aiutata a darsi la morte. Penso che dietro alla spavalderia ostentata dai fautori del suicidio assistito, ci sia uno smarrimento della nostra comune umanità. Penso che la morte “solidarizzata” con l’aiuto al suicidio è una sconfitta, non un trionfo dei diritti; una beffa, non una conquista». Secondo la presidente un possibile punto di equilibrio per tutelare la vita e al tempo stesso tentare di creare le condizioni affinché nessuno arrivi a dire «non ce la faccio più» è «la protezione vera e concreta, efficace ed effettiva, a 360 gradi, delle persone fragili che dovrebbero avere corsie preferenziali per la cura e l’assistenza da parte di tutto il Ssn». Con al centro le cure palliative che «sono un aspetto fondamentale, ma vanno circondate da una serie di attenzioni e agevolazioni che vanno da un qualificato potenziamento dell’assistenza sanitaria sia domiciliare sia ospedaliera a un facile accesso alle cure necessarie, da un sostegno ai caregivers all’abbattimento delle barriere della burocrazia sanitaria, da una più qualificata formazione professionale degli operatori sanitari a un investimento economico per il miglioramento in termini di servizi e ambiente delle strutture sanitarie, ma anche per un aumento degli hospice e dei posti letto negli ospedali».

La percezione della morte

DI MIRELLA ARLANDI

Perché parlare del fine vita? Perché la morte è ineluttabile: se nasci, muori. Può arrivare senza annunciarsi. È fondamentale arrivare preparati a questo momento. Al nostro ultimo respiro sono legati innumerevoli problemi medici, etici, giuridici e psicologici, che il Meic affronta con il contributo di esperti, attraverso articoli che attualizzano un tema oggi riconosciuto anche a livello accademico con il nome di tanatologia (dal greco thanatos = morte). Infine, ma non per importanza, è necessario parlarne per evitare di morire senza aver mai vissuto. Heidegger già agli inizi del Novecento affermava che “la morte non ci parla più”. Ma non è vero: la morte ci parla da sempre. Siamo noi che siamo diventati sempre più sordi. Viviamo in una società che rifugge ogni discorso sulla fine, tutta incentrata sull’apparenza, sull’eterno presente, sulla giovinezza a tutti i costi. Siamo perennemente obnubilati dal consumismo e dalla tecnologia, che con modi suadenti e ingannevoli ci confondono, rendendoci prigionieri di una trappola mortale. Ci vogliono schiavi e non pensatori, consumatori e non ribelli. Eppure, la morte continua a parlarci ogni giorno. Il telegiornale è diventato una vetrina di stragi, omicidi che guardiamo ormai con distacco, senza versare una lacrima. Spegniamo il televisore per non turbare la serenità del pasto, anestetizzati da un immobilismo emotivo che spegne la gioia di vivere e soffoca le domande sul senso della nostra esistenza. Da sempre, la morte inquieta. Ma proprio per questo pone interrogativi fondamentali. È la realtà che ci spaventa di più perché ci ricorda il nostro limite. La risposta più diffusa è la negazione. Oggi, paradossalmente, non esiste più nulla di indicibile: la pubblicità usa linguaggi volgari, la pornografia è ovunque; ma la morte è diventata l’unico vero tabù. Negli annunci funebri si usano espressioni come “è salito al cielo” o “è mancato all’affetto dei suoi cari” pur di non dire semplicemente “è morto”. I bambini vengono tenuti lontani dalla sofferenza e dalla vista dei loro cari defunti, privati di dolori ed emozioni che, se vissuti con consapevolezza, potrebbero diventare preziosi maestri di vita. Negare la morte genera altra morte. Secondo i principali ricercatori, l’assenza di un’elaborazione consapevole del concetto di morte è tra le cause profonde di molte morti giovanili. I ragazzi si cimentano in sfide insensate – come sdraiarsi sui binari in attesa di un treno, saltando via all’ultimo momento – oppure cercano di “vedere come si muore”, arrivando perfino al suicidio. Questo accade perché non hanno piena cognizione dell’irreversibilità della morte. Accettare che la morte esista è il primo passo per riconoscerla come una grande occasione: quella di valorizzare la propria vita. Solo comprendendo la fine, possiamo dare un senso profondo al tempo che ci è dato. Tutto ciò che possediamo materialmente, saremo costretti a lasciarlo. Allora diventa essenziale chiederci che cosa conta davvero: non il successo, il potere o il denaro, ma l’amore, l’unica realtà che la morte non riesce a livellare. L’essere umano vive in tre dimensioni: corpo, mente e anima. Esiste tra il visibile e l’invisibile, e proprio ciò che è invisibile è essenziale, come ci insegna il Piccolo Principe. Amore, gioia, rabbia, paura, ma anche pensieri, idee, intuizioni: l’uomo è immerso in una continua danza tra materia ed energia, alla ricerca di un senso che lo spinge verso l’infinito, verso l’oltre. Il significato e la risposta a questa tensione si trovano nel sentire di ognuno, secondo la propria cultura, spiritualità o visione del mondo. Da una prospettiva non religiosa, possiamo cogliere nella riflessione di Lavoisier – “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” – l’idea che la morte non sia una fine assoluta, ma una trasformazione della materia e dell’energia. La visione cristiana, e in particolare quella cattolica, offre una prospettiva diversa e profondamente spirituale: la morte non è una conclusione, ma un passaggio verso la vita eterna. San Paolo afferma: “Se moriamo con Cristo, vivremo anche con Lui”, sottolineando che la fede nella risurrezione dà senso e speranza anche di fronte al mistero della fine. Essa, infatti, non consiste nella negazione del dolore, ma nella certezza che la morte è già stata vinta da Cristo. In questo percorso è possibile che la paura della morte non sparisca del tutto – curioso è il fatto che essa alberghi anche in molti credenti – ma nel comprendere la morte, finiremo per comprendere noi stessi, il nostro modo di vivere e il mistero che ci circonda. E, almeno, non ci troveremo alla fine a dire: «Vivere… è tutta la vita che volevo farlo».

(Nella foto: a giornalista di Perugia Laura Santi, 50 anni, con il marito Stefano).

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