Più umanità nelle carceri
Di Ennio Chiodi
76 detenuti si sono finora suicidati nelle carceri italiane nel corso dell’anno che sta per finire. Di almeno altri 130 non conosciamo le vere cause della morte dietro le sbarre. Non servono sofisticate analisi sociologiche per comprendere le ragioni di questo dramma umano e sociale. Leone XIV ce lo ha spiegato con poche e semplici parole nel chiudere il Giubileo dei detenuti domenica scorsa in San Pietro. Il Papa pensa soprattutto a problemi come il sovraffollamento, l’impegno ancora molto insufficiente nel garantire program- mi educativi stabili di recupero e opportunità di lavoro, che possano offrire speranza e futuro a chi ha sbagliato, se ne sia reso conto, e speri in una qualche forma di vita, “là fuori”. Per capire ancora meglio come si viva “là dentro” in buona parte delle prigioni di un Paese civile e democratico, ci affidiamo ai cappellani delle carceri che quel dramma lo vivono quotidianamente. Padre Lucio Boldrin, cappellano del carcere romano di Rebibbia, è uno dei più impegnati. Ci ricorda situazioni che cancellano la dignità umana, condizioni igieniche precarie, la contiguità in ambienti malsani che ospitano il 130% in più dei detenuti previsti, il gelo d’inverno, il caldo insopportabile d’estate, il bugliolo per i bisogni personali accanto al for- nello per scaldare qualche pietanza e… chi più ne ha più ne metta. Una realtà che rende sempre più flebile il richiamo di Papa Francesco prima e di Papa Leone in queste ore: «Il Signore continua a ripeterci che una sola è la cosa importante: che nessuno vada perduto». L’Osservatorio di Antigone, autorizzato dal Ministero della Giustizia a compiere periodiche indagini nelle carceri italiane, rileva che una pena solo “custodiale” (ti sbatto dentro e ti lascio lì) aumenta del 60/70% la probabilità di recidiva, di commettere, cioè, nuovi reati per chi esce senza lavoro e senza opportunità, men- tre la recidiva crolla sotto il 20% per chi ha avuto lavoro e continuità dopo la scarcerazione. Molti dei suicidi avvengono tra persone prossime al fine pena, assaliti dall’angoscia del che cosa fare e come vivere un “dopo” che magari segue decenni di detenzione: affetti affievoliti o scomparsi, difficoltà di trovare fonti di sostentamento, alloggi come miraggi. I cappellani non sottovalutano promesse di Governo e Istituzioni ma denunciano gli ostacoli posti da una parte della politica più ideologica e miope, nonostante le denunce del presidente Mattarella e gli appelli del presidente del Senato La Russa. Servono certezza della pena e repressione dei reati, non inutili crudeltà. Trattando con umanità chi è anche giustamente privato della libertà personale scommettiamo su un Paese più sicuro, non più permissivo e rassegnato.
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