Quale valore dare all’accoglienza?

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Una riflessione sull’importanza del bene silenzioso, dell’ascolto paziente e della vita autenticamente vissuta

DI LUIGI MARUZZI
Leggendo il libro Forse non è il caso – scritto da Matteo Colombo e pubblicato di recente dall’editrice San Paolo – si alternano due differenti impressioni senza che l’una prevalga sull’altra. Da una parte, viene riaffermato il primato della cronaca coi singoli fatti che ne costituiscono il tessuto vitale. Dall’altra, è come se la riflessione del giornalista scoprisse i vari accadimenti sotto la luce di un pensiero guida. L’opera (che ho visto presentare a Broni lo scorso 16 ottobre nel ridotto del teatro “Carbonetti”) non si limita a riproporre articoli di giornale selezionati con cura e oculatezza ma va oltre, facendo emergere una serie di domande che il lettore finisce per raccogliere spontaneamente, per poi adattarle a se stesso. Non si tratta, però, di interrogativi qualsiasi. Perché tutte queste sollecitazioni si installano nella mente e – siccome trovano cibo per i loro denti (come dubbi, incertezze, paure, speranze, fiducia) – non ne vorrebbero più uscire. A me, per esempio, è capitato di chiedermi per chi o che cosa sarei disposto a offrire la vita. Per una spericolata gara di moto? Per la ricerca sfrenata del piacere? O per ottenere l’affrancamento senza tempo dai bisogni materiali? Se diamo un’occhiata ai media che siamo soliti consultare, vediamo che la maggioranza delle persone prova un’attrazione fatale per la conquista della fama, anche solo per un giorno. Ma conquistare la fama è diventata un’impresa quasi impossibile in un mondo in cui neppure la decisione di vendere il proprio rene fa più notizia. In un mondo che assiste al tramonto della tensione spirituale fra anima e corpo e non smette di esibire un senso di sfiducia nel futuro. E chi passa le giornate con la mira di raggiungere la perfezione in ambiti professionali, imprenditoriali, di studio e ricerca, pure lui (o lei) rischia di rimanere impigliato nella pochezza di valori sempre più sfuocati. Al punto che mi piacerebbe rivolgergli la domanda delle domande: sei sicuro che vorrai essere ricordato per questo? Ci sono decisioni, prese di posizione e gesti che non possono essere rimandati. Hanno fatto bene i giovani italiani a riprendersi pacificamente il proprio spazio di manifestazione. Come, del resto, hanno fatto altrettanto bene i giovani europei a salire sulle barche dirette alla volta della Palestina. Sarà pur vero che mancava loro la consapevolezza di rischiare la vita (troppi anni sono passati dai fatti di piazza Tienanmen), ma se quello che volevano era dare l’assedio al muro dell’indifferenza, non si poteva rimandare. Per controcanto, la volontà di declinare le proprie convinzioni in azioni capaci di parlare con l’urgenza che i problemi richiedono, si espone al rischio di sottoporsi a un tipo di interpretazione che, nel contesto di un dibattito piuttosto acceso, può portare anche a esiti divisivi. Persino l’azione filantropica, se impregnata di significati eccessivamente ideologici, può andare incontro a reazioni di segno opposto. L’unica soluzione che presenta maggiori garanzie di imparzialità, trasparenza e capacità di prendere le distanze da interessi estranei alla ricerca del bene (comune), risiede nell’accoglienza. L’accoglienza sposta l’accento dalle etichette alla persona che esprime un bisogno, uno stato di sofferenza, il disagio dell’emarginazione. Molto spesso, poi, l’emarginazione viene alimentata dallo stigma che trova il massimo della sua potenza distruttiva nel negare una possibilità di riscatto e salvezza a chi ha sbagliato o – semplicemente – ha compiuto scelte diverse dalle nostre. In nome del diritto alla dignità personale, diventa quantomai urgente praticare il valore dell’accoglienza. Anni fa ho conosciuto un frate, diceva che non guardava mai il passaporto di coloro che raccoglieva per strada. Un giorno mi raccontò per filo e per segno come avveniva il miracolo dell’accoglienza: bisogna immaginare una specie di tunnel che l’ospite (fino a quel momento considerato poco più di un rifiuto) percorre fino a raggiungere la “ri-umanizzazione”: nell’umile procedura fatta di abbandono del vecchio, igiene personale e vestizione si incontrano carita- tevole cura, rispetto e pietà. In questo senso, mi viene in mente a 16 anni dalla sua morte la poetessa Alda Merini e, per associazione di simile calvario, una moltitudine di donne e uomini colpiti dalla terribile malattia dell’AIDS durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, precocemente scomparsi per carenza di adeguate ricerche e di soluzioni terapeutiche (ricordo che una delle parole più ricorrenti era “hospice”). A valorizzarne la memoria è da poco intervenuta un’iniziativa culturale intitolata Vivono. Arte e affetti Hiv-Aids in Italia. La mostra allestita a Prato, promossa dal Centro Pecci e sostenuta da IntesaSanPaolo, rappresenta un’occasione inedita per avvicinare il pubblico all’opera di importanti poeti, scrittori, artisti e fotografi. Le storie indagate testimoniano come l’amicizia possa evolvere verso la solidarietà e – attraverso una profonda condivisione del dolore – trasformarsi in autentica accoglienza dell’Altro.

luigiginomaruzzi [at] gmail.com

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