Il “Pinocchio” a metà di Garrone

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Condivido pienamente quanto scritto sul nostro settimanale lo scorso giovedì in “Terza Pagina”: “Pinocchio” deve essere inserito nei libri di testo e diventare una lettura obbligatoria per tutti gli studenti. Questo adattamento firmato da Matteo Garrone, attorno al quale vi era tanta attesa, ha il merito indiscutibile di essere fin troppo fedele all’originale romanzo di Collodi, restituendo allo spettatore quel senso di “povertà” che permea l’intera opera, con una smisurata dose di realismo. Ma attenzione, perché proprio in ciò risiedono tante criticità e il film deve misurarsi sia con l’indimenticato sceneggiato diretto da Comencini nel 1972, sia con quel “Pinocchio” di Roberto Benigni del 2002 che ancora oggi risulta essere la pellicola italiana più costosa. Benigni che, in questo nuovo capitolo, interpreta Geppetto in modo egregio trasmettendo il senso di emozione, umiltà e miseria che ha sempre suscitato il falegname toscano: vecchio e trasandato ma simbolo dignitoso della figura paterna. Peccato però che compaia per i primi venti minuti e ritorni solo alla fine.

Detto questo, sembra un film svuotato dell’“effetto novità”, che si priva di quel coraggio di raccontare un qualcosa di “nuovo” e non lo stesso tracciato narrativo già visto. Magari si poteva pensare a presentare la storia dal punto di vista di Geppetto, sfruttando il talento di Benigni. Interessante sul piano estetico, pregevoli i costumi e gli effetti speciali, suggestiva la bellezza delle inquadrature. Molto bene anche la sensazione di essere in una fiaba che trasuda odore di “ottocento italiano”.

Incantevoli le musiche di Dario Marinelli.

Forse ancora un po’ troppo acerbo il piccolo Federico Ielapi (Pinocchio), tra il burbero e il generoso Gigi Proietti (Mangiafuoco). Al di là di tutto è un buon adattamento ma non di certo memorabile. Rimane la magia per una storia immortale e senza tempo, anche se questo progetto filmico, ahimè, appare riuscito solo in parte.

Matteo Coggiola

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